05/06/2013
Livio Berruti alle Olimpiadi di Roma.
La 33esima edizione del golden gala, dedicato a Pietro Mennea. La stella, per il terzo anno di fila, è Usain Bolt, primatista mondiale dei 100 e 200 metri. “Quando sono grandi – racconta il “fulmine” caraibico – gli sportivi fanno onore al proprio Paese, è bello che l'Italia onori un atleta che le ha dato lustro. Quando mi ritirerò, spero di essere omaggiato dai giamaicani come fanno gli italiani con Mennea. Mi sento alla grande, nelle ultime settimane mi sono allenato su velocità e resistenza”. Pietro è scomparso il 21 marzo, dopo una lunga malattia, visse un pizzico di rivalità con Livio Berruti. O meglio la avvertiva il barlettano - come veniva definito nelle telecronache Rai di Paolo Rosi - nei confronti di quel piemontese che divenne simbolo delle uniche Olimpiadi italiane. Mennea voleva alimentare continuamente il proprio mito, a discapito degli avversari, vicini e lontani.
Berruti, in comune avete il titolo a cinque cerchi sui 200 metri: lei a Roma nel 1960, Pietro 20 anni dopo, a Mosca, complice il boicottaggio americano.
“Già. Mennea era un asceta dello sport, interpretato sempre con ferocia e determinazione, è stato un inno alla resistenza, alla tenacia e alla sofferenza”. Che rapporto avevate? “Molto dialettico. Io praticavo la velocità per divertirmi, lui come lavoro: era pragmatico, mentre io sono un idealista. Il nostro fu uno scontro come tra filosofi greci, faccia conto di Platone vs Aristotele".
Perchè lei lasciò a soli 30 anni, nel ’69?
“Eravamo dei dilettanti, lo sport era un corollario della vita, per Pietro rappresentava uno strumento di gestione economica, non solo estetica. Negli anni ‘80 ci si sistemava per l’intera esistenza, continuando a gareggiare nei meeting europei”.
Cosa resta dell’esempio di Mennea?
“All'atletica italiana servirebbe la sua grande voglia di emergere, questo sport si nutre proprio del desiderio di mettersi in luce: è duro e spesso ci si allena da soli. I giovani oggi hanno meno voglia di sacrificarsi, il lutto recente rischia di accentuare questa tendenza”.
Sul piano della classe non c’era paragone, stravinceva la compostezza di Berruti, in gara con gli occhiali.
“Lui non aveva una corsa spontanea, è una dote naturale. Imparò grazie agli allenamenti, sotto la guida di Carlo Vittori, professore marchigiano che aumentò la sua resistenza, ingrediente fondamentale per i successi, scoprendo nuove metodiche di training. Negli ultimi appoggi dello sprint enfatizzava quella enorme determinazione, grazie a carichi di lavoro pesantissimi”.
Che non lo premiarono sui 100, la distanza più classica.
“Io stesso, per la verità, mi imposi solo sui 200. Restavo in testa dall’inizio all’arrivo, Pietro si esaltava negli ultimi 5 metri. Ero poco programmato, lui costruito e studiato. Si può arrivare primi con il talento, ma pure con la preparazione maniacale”.
E quel suo essere così tormentato?
“Era in perenne conflitto, con gli altri ma principalmente con se stesso. Ai blocchi non era disinvolto, brioso e goliardico come Bolt, il giamaicano è perfetto nell’attenuare le tensioni della gara, si è visto anche nella domenica di Pasqua, come ha preparato il record dei 150, peraltro mancato”.
Livio Berruti oggi.
Lei era amico di Mennea?
“Per noi valevano le convergenze parallele, per usare un termine politico dell’epoca”.
Incideva la sua torinesità nei confronti dell’estrazione pugliese di Pietro?
“Sud e nord erano marginali, nel nostro rapporto. La differenza era nel
modo con cui si affrontava lo sport: personalmente sorridevo, al pari di
Sara Simeoni, regina del salto in alto, Mennea si approcciava con
sofferenza, mostrando la rabbia di chi cercava il massimo anche levando
spazio ai colleghi”.
Vi siete mai affrontati?
“Solo sfiorati. Si affacciò a livello nazionale nel ’70, avevo appena
smesso. In generale furono poche le occasioni di incontrarci anche a
margine dell’atletica, sempre per via dei nostri diversissimi
linguaggi”.
Alle Olimpiadi di Seul ’88 fu portabandiera, neanche quel massimo riconoscimento placò Mennea?
“Era egocentrico, davvero cultore del proprio io, esasperava le corse
facendone una questione esistenziale, a fronte del mio approccio
spensierato”.
Considerato tutto, Mennea è stato il più grande atleta azzurro?
“Le classifiche e i confronti a distanza sono sempre antipatici,
complicati e pericolosi. La speranza è di avere trasmesso tutti messaggi
positivi, graditi agli spettatori”.
Pur con due lunghe interruzioni, Mennea gareggiò sino ai 36 anni, primato nella velocità maschile.
“Per lui, ripeto, era un lavoro ben remunerato, non tanto questione di passione”.
Lei migliorò due volte il record del mondo, in semifinale e in finale, a Roma, la “freccia del Sud” lo detenne per 17 anni.
“Grazie però all’altura. A Città del Messico progredì di alcuni decimi
di secondo, alle universiadi del ’79 tutti i finalisti stabilirono il
proprio personale, dunque ebbe la fortuna di imbroccare la gara giusta”.
Aveva qualcosa in comune con la fisicità delle persone di colore?
“Nulla, neanche la scioltezza di quelle etnie. Utilizzava metodiche da mezzofondista, per modificare la morfologia del corpo”.
All’atletica non serviva, come dirigente?
“Tentò di entrare in federazione, nessuno lo votò. Non ebbe successo sul
piano elettorale, si rifece in politica, arrivando al parlamento
europeo, nel ‘99”.
Berruti, oggi a cosa si dedica?
“Sono un pensionato attivo, non troppo impegnato, sono tornato al
tennis, mia vecchia passione. Importa alimentare lo spirito, per
scoprire nuove sfide, finchè resta questa curiosità si rimane giovani”.
Vanni Zagnoli