Milano cantiere della 'ndrangheta

Le infiltrazioni della mafia sono profonde. Lo spiega il magistrato Giuseppe Gennari, che da sette anni vaglia le inchieste milanesi.

04/02/2013
La copertina del libro di Giuseppe Gennari, "Le fondamenta della città", Mondadori.
La copertina del libro di Giuseppe Gennari, "Le fondamenta della città", Mondadori.

Chi pensa ancora che a Milano le mafie vengano solo per ripulire denaro e investire in borsa deve leggere “Le fondamenta della città” di Giuseppe Gennari, giudice per le indagini preliminari a Milano. Gennari, 42 anni, d’origine marchigiana, ha passato al vaglio negli ultimi sette anni le principali inchieste della Procura sulla mafia che opera all’ombra della Madonnina e in tutta la Lombardia.

Il libro, in uscita in questi giorni da Mondadori, è una galleria di storie e personaggi che raccontano quanto pesante e diffusa sia la presenza della criminalità organizzata a Milano: puoi incontrarla nei cantieri edili della città, o quando ti siedi in un bar davanti a una slot machine o al video poker, e ancora nel recarti al centro sportivo oppure nel ricevere un pacco da un corriere espresso.



Baracchino di via Celoria, di proprietà di Loreno Tetti, soprannominato “il paninaro anti-'ndrangheta”. Tetti è stato l'unico a testimoniare nel processo contro il racket dei venditori ambulanti. Poco tempo dopo la sua testimonianza il furgoncino, il 19 luglio 2012, è stato dato alle fiamme. Gli studenti e gli abitanti della zona hanno creato un comitato antimafia presieduto da Nando dalla Chiesa. Ora a Loreno è stato dato un nuovo furgoncino.


«Perciò il titolo non poteva che essere questo», dice il giudice. «Vi si raccontano vicende che riguardano le fondamenta della città in senso fisico, per tutto ciò che concerne l’edilizia e il cosiddetto movimento terra, ambito in cui la ’ndrangheta opera quasi in regime di monopolio; ma anche per il significato metaforico dell’espressione: rende l’idea dell’infiltrazione profonda delle mafie nel tessuto della città».



Un venditore ambulante a Milano. La ‘ndrangheta aveva acquisito la gestione degli spazi, per cui i proprietari dei chioschi dovevano pagare per avere la “concessione” dello spazio.


I protagonisti? I clan della ’ndrangheta Barbaro e Papalia di Buccinasco e Corsico, i Flachi di Bresso e della Comasina. E ancora don Pepè Onorato, da 40 anni punto di riferimento per la criminalità calabrese nella zona di via Porpora a Milano, o Paolo Martino, uomo dei De Stefano, riciclatosi dopo la detenzione in “consulente aziendale” per conto di cooperative gestite dalla mafia.

– Dottor Gennari, il settore edilizio è ancora in pugno alla ’ndrangheta?

«Quello dei grandi cantieri sì. E con l’Expo alle porte è una questione quanto mai attuale. Del resto la presenza della criminalità non c’è solo nella cintura esterna della città. È emblematica la vicenda della società edile Perego. È finita sotto il diretto controllo della mafia calabrese. Quand’era in corso l’inchiesta, l’azienda aveva un cantiere di fronte al Palazzo di Giustizia di Milano. I carabinieri non avevano nemmeno bisogno di prendere l’auto per fare le foto e gli appostamenti. La Perego è fallita nel 2010, ma di fatto era già morta nel momento in cui la criminalità l’aveva fagocitata».



L’Ortomercato di Milano. Con il 60% del mercato della frutta italiano ha un fatturato annuo di 20 miliardi di euro. Sono note le forti infiltrazioni di mafia e 'ndrangheta, emerse in diverse indagini giudiziarie.


– Il problema non è solo l’edilizia...

«No, purtroppo. L’infiltrazione riguarda tante attività della vita quotidiana della città. È successo col controllo delle macchinette da videopoker nei bar, o con la gestione dei parcheggi abusivi intorno ai locali notturni, o ancora in un centro sportivo finanziato dal Comune».

– Il libro sembra dire “attenzione, che la mafia ce l’avete sotto casa”. È così?

«La percezione che le mafie siano una cosa del Sud va abbandonata. Un esempio? La gestione degli spazi dove si piazzavano i chioschi dei venditori ambulanti. La ’ndrangheta ne aveva il monopolio, e gli ambulanti pagavano. Bisognava passare attraverso i boss calabresi per avere la "concessione". È una storia emblematica. Dimostra che spesso le vittime lo sono solo a metà: i venditori ambulanti subivano le imposizioni dei mafiosi, ma poi accadeva che ricorrevano al boss per far rispettare i loro “diritti” rispetto ai concorrenti. Quando la Finanza apri un chiosco “civetta” a fianco del paninaro che veniva estorto, quest’ultimo ha chiamato il padrino calabrese per far cacciare l’intruso».

– Anche il noto corriere espresso Tnt è finito nelle grinfie della criminalità.

«“Nelle grinfie” non direi. È un altro caso delle vittime a metà: un esempio abbastanza chiaro di alleanza utile fra l’imprenditore legale e questo tipo di realtà criminali. La Tnt usava una cooperativa della mafia per la distribuzione dei pacchi a Milano e provincia».

– La società ne era consapevole?

«Sì. La vicenda processuale lo ha dimostrato. La Tnt aveva problemi nell’area milanese con le sue cooperative: erano molto frammentate, conflittuali fra loro. Allora, i vertici italiani della multinazionale affidano a un consulente l’individuazione della soluzione: costui, che peraltro era un ex ufficiale dei carabinieri, porta alla Tnt una cooperativa di calabresi, dicendo che “con loro non avrete problemi”. Quando l’inchiesta giudiziaria ha portato allo scoperto la faccenda, la Tnt Olanda ha decapitato tutti i vertici italiani. Le filiali milanesi sono state ripulite dalla Procura e riconsegnate alla Tnt».

– Insomma, Milano come il Sud?

«No, è diverso. Qui al Nord la mafia ha avuto la capacità di entrare in sinergia con le attività economiche e sociali, mentre al Sud le hanno schiacciate. Il controllo del territorio nel Meridione è devastante, specie in Calabria dove la ’ndrangheta ha quasi preso il posto dello Stato. In Lombardia, invece, ha rapporti sinergici, convive, offre prestazioni che avvantaggiano. Il tutto senza i morti per la strada e la violenza, perché com’è noto la mafia calabrese preferisce il basso profilo e il silenzio».



Un'altra immagine del parcheggio dell'Ortomercato di Milano



– Ed è anche camaleontica, capace di adattarsi velocemente al mutare delle situazioni. È così?

«Lo dimostrano le ultime indagini sul traffico degli stupefacenti. La ’ndrangheta ha smesso di cercare il lucro in forma monopolistica nel settore della droga. Trafficano ancora, ma a Milano non c’è più l’egemonia, sia a livello di importazione che di distribuzione. Oggi, il controllo è ripartito fra sudamericani, maghrebini, albanesi, e gruppi della ex Jugoslavia. L’“ultima frontiera” è lo spaccio delle colf. Risulta da inchieste recenti che a tenere le fila della distribuzione sono colf sudamericane, più donne che uomini. Piccole quantità, un chilo o due di cocaina, provenienti dall’Ecuador e dal Perù e portati da corrieri talvolta inconsapevoli».

– Perché la mafia rinuncia a un mercato tanto lucroso?

«Perché è diventato troppo pericoloso. Sono i reati meno difficili da provare e con pene elevate. Se importi droga, rischi 15 anni di galera. Se gestisci una cooperativa col benestare della società che ti dà il contratto è più difficile dimostrare che sei un mafioso. Oggi, le mafie cercano sempre più di fare lucro attraverso attività legali, o apparentemente legali. Questo è un salto di qualità, da parte della criminalità, ed esige un salto di qualità anche nella nostra azione di contrasto. Dobbiamo affinare le norme e gli strumenti investigativi. Dobbiamo diventare consapevoli del fatto che la mafia è sempre più un attore del mercato. Nelle dinamiche economiche ci sono anche loro. La banda di trafficanti albanesi è da tutti considerata criminale. Invece, con questa nuova strategia, la mafia entra nell’economia legale, cerca di accreditarsi come uno dei fattori che “fa funzionare le cose”. Questo è il fatto più preoccupante».



Il magistrato in viale Montello 6. La palazzina è stata una delle “roccaforti” del clan Cosco nel capoluogo lombardo. È stata sgomberata, dopo 40 anni, nel giugno del 2012. È qui che è stata torturata e uccisa Lea Garofalo, la testimone di giustizia rapita nel 2009 in pieno centro a Milano (in zona Sempione, vicino all’Arco della Pace). Ora l'ingresso è piombato per impedire l'accesso.



– L’immprenditoria sana deve stare alle regole. Quella mafiosa ha enormi masse di denaro da riciclare. Una battaglia persa in partenza?

«C’è il pericolo che l’economia illegale e mafiosa diventi prevalente. E non può essere battuta solo dalla repressione giudiziaria. Dev’essere anche una scelta culturale quella di contrastare il fenomeno impedendo alla criminalità di prendere il sopravvento. Per l’imprenditore è più facile e più comodo convivere con la mafia piuttosto che contrastarla, e questa è la ragione per cui l’omertà lombarda, nei risultati, non è diversa da quella calabrese. Qui nessuno parla, nessuno denuncia. Bisogna piuttosto far capire che è un’alleanza dagli esiti tragici: alla lunga è perdente. Questo tipo di sinergia non può che finire con la scomparsa dell’impresa sana. Oggi l’imprenditore può essere tentato al compromesso dalla necessità di sopravvivere. Ma è l’inizio della sua fine: verrà “mangiato” dalla mafia».

– Tuttavia, il nostro Paese sembra dare ben pochi strumenti all’imprenditore per difendersi, specie in quest’epoca di crisi.

«È vero. Lo Stato non può basarsi sulla scelta morale dell’imprenditore, né pretendere il martirio. Occorre introdurre degli strumenti che facciamo da contrappeso, che garantiscano dei vantaggi a chi rifiuta i compromessi con l’illegalità».



Il bar Ebony di via Porpora. È stata la base operativa del boss don Pepé Onorato e dei "ragazzi dell'Ebony", condannati nel 2010 a oltre cento anni di carcere.



– Lei scrive: “Qui non si tratta più di saper arrestare un assassinio. Ci dobbiamo specializzare nel cogliere reati sempre più raffinati”. È una rincorsa col fiatone, quella della giustizia?

«Un po’ sì. Anche perché il magistrato applica le norme. Norme che con grande difficoltà cercano di fotografare un fenomeno sociale. Oggi ci sono reati complessi, per i quali mancano le leggi. Ad esempio, se vuoi colpire queste relazioni di convenienza non puoi usare il reato di associazione: l’imprenditore che si avvale della mafia non è un associato, scambia utilità, e se questa “collaborazione” con la criminalità non riguarda direttamente attività illecite, è penalmente irrilevante. Occorre una normativa che punisca il fatto stesso di collaborare con la mafia, anche su attività non illecite. Se non ci sono le norme, la zona grigia non si colpisce».

– Lo stesso vale per il rapporto mafia-politica?

«Sì. Ad esempio, la legge punisce per voto di scambio solo il politico che acquista in denaro i voti dai mafiosi. Non è più così. Oggi il politico va dal mafioso e gli dice: “Se mi fai eleggere, poi quando sono lì non ti devi più preoccupare”».

Luciano Scalettari
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Postato da antonel il 07/02/2013 10:25

Circola un equivoco di fondo. Ripritiniamo la verità. La mafia è Sicilia. L'ndrangheta è Calabria. La camorra è Campania. Tutte e tre queste organizzazioni malavitose, che hanno le cupole nelle tre Regioni, investono nelle aree ricche. La Lombardia, ovviamente, ma anche le altre regioni del Nord Italia, la Francia del Sud con e/o contro i marsigliesi, la Germania (molto infiltrata). Per non parlare, ovviamente, degli Stati Uniti. Utilizzare la presenza delle mafie in Lombardia per screditarla è un'operazione indegna. Scusate la franchezza. Un'escamotage demagogico per fare barriera contro le istanze del Nord che, a prescindere dalla Lega, sono spesso molto fondate.

Postato da santrev il 05/02/2013 08:25

Ma come, se solo poco più di un anno fa Maroni ci aveva detto che la mafia al nord non c'era? Ma allora, che lotta alla mafia faceva quando era ministro degli interni? Se uno nella sua posizione non sapeva quello che si legge nell'articolo, significa che non era all'altezza del compito affidatogli.

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