Monicelli, il cinema per capire l'Italia

Nessuno meglio del regista viareggino ha saputo tratteggiare miserie e grandezze dell’italiano medio incarnato dai suoi attori preferiti: Totò, Alberto Sordi, Vittorio Gassman.

30/11/2010
Una recente immagine del regista Mario Monicelli a Venezia con il Presidente della Biennale Paolo Baratta.
Una recente immagine del regista Mario Monicelli a Venezia con il Presidente della Biennale Paolo Baratta.

Non doveva finire così. Perché se togliersi la vita è gesto sempre disperato, farlo a 95 anni è soprattutto un atto d’accusa. Contro l’iniquità di una devastante malattia, ma anche contro un’immeritata solitudine. E pensare che lui, Mario Monicelli, viareggino classe 1915, in settant’anni di carriera dietro la cinepresa (primo film I ragazzi della via Paal, ospite della Mostra di Venezia del 1935, ultimo Le rose del deserto, girato nel 2006) ha fatto ridere milioni e milioni di italiani, intere generazioni.

Assieme a Dino Risi e a Luigi Comencini gran maestro della commedia all’italiana, genere che assieme al neorealismo ha fatto la vera gloria della nostra cinematografia, Monicelli ha scritto un centinaio di copioni e girato 68 pellicole, quasi tutte di enorme successo al botteghino. Ma non come i cinepanettoni di oggi, in cui volgarità e battute grossolane provocano la facile goduria dello spettatore sempliciotto: Monicelli suscitava la risata scorticando gli eterni difetti italici, portando sullo schermo i personaggi da commedia dell’arte cresciuti tra le macerie della Grande Guerra, i falsi miti dell’era fascista e i miraggi dell’italietta del boom economico.

Nessuno meglio di lui ha saputo tratteggiare miserie e grandezze dell’italiano medio incarnato dai suoi attori preferiti: Totò, Alberto Sordi, Vittorio Gassman. “Il nostro Balzac”, la definizione di un critico che lo conosceva bene. Guardie e ladri, I soliti ignoti, La grande guerra (Leone d’Oro a Venezia nel 1959), L’armata Brancaleone, La ragazza con la pistola, Romanzo popolare, Amici miei, Il marchese del Grillo, Speriamo che sia femmina, Parenti serpenti: i suoi capolavori, quelli che ogni italiano ha visto, almeno in Tv. A cui bisogna aggiungere titoli di enorme popolarità, a cominciare dalle migliori prove di Totò per arrivare a Un borghese piccolo piccolo, film emblematico che nel 1977 calò il sipario sulla commedia all’italiana, rivelando al pubblico un Sordi capace di accenti sofferti.

Ecco l’altra abilità di Monicelli: svelare le doti profonde di attori già popolari. Gassman e la Vitti erano nati infatti come interpreti drammatici, ma con lui rivelarono qualità ironiche davvero insospettabili. Arguto, vitale, burbero al limite del cinismo ma al fondo dotato di vera umanità, Monicelli aveva secondo molti un caratteraccio. Eppure di tanti colleghi, attori, amici, mogli (l’ultima Chiara Rapaccini di quarant’anni più giovane), figli, nipoti, alla fine accanto a lui non c’era nessuno in ospedale. E così il grande Mario se n’è andato da solo portandosi appresso Il male oscuro, guarda caso titolo di un altro suo bel film con Giancarlo Giannini.

Maurizio Turrioni
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Postato da FRANCO PETRAGLIA il 01/12/2010 13:20

IL GESTO SBAGLIATO DI MARIO MONICELLI Caro direttore, il tragico epilogo di Monicelli mi ha rattristato e sconvolto non poco dal punto di vista etico-morale. Ultima e terribile scena di un film personale che poteva e doveva essere evitata. Mentre mi inchino all’ultimo grande maestro del cinema italiano, non posso fare altrettanto per il suo mancato rispetto per la vita:dono incommensurabile che Dio ha fatto all’uomo. So pure che Gesù insegna a non giudicare, onde non essere giudicati, ma l’umano è imperfetto e quindi esprime giudizi. Il suo eccezionale ricordo cinematografico che questo uomo lascia al mondo intero è fortemente offuscato da questo gesto brusco, improvvido e contrario ad ogni logica spirituale. Che prevalga, comunque, sempre la grande misericordia di Dio! Ringrazio vivamente per la cortese ospitalità e porgo molti cari saluti.
Franco Petraglia – Cervinara (AV)

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