Professione reporter di guerra

Odiare la violenza, raccontare la violenza, la fame, le miserie del mondo. Rimanendone spesso vittime. Con una missione: testimoniare.

29/08/2011
Claudio Monici
Claudio Monici

«Il cinema, la letteratura, l’immaginario popolare hanno circondato il corrispondente di guerra di un’aura mitologica che ignora, o comunque tradisce, la realtà: il reporter che va in guerra non è mai un eroe: è soltanto un uomo che ha paura, e che odia la guerra, ma trae forza dalla consapevolezza del ruolo che sta interpretando». Poche definizioni come questa del grande inviato e maestro di giornalismo Mimmo Càndito hanno pennellato in estrema sintesi la figura dell' “inviato di guerra”. La frase, tratta dal suo libro “I reporter di guerra” (Baldini & Castoldi), sembra scritta su misura per i nostri colleghi Claudio Monici, inviato di Avvenire, Domenico Quirico della Stampa, Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina del Corriere della Sera, sequestrati l’altro ieri a Tripoli da un gruppo di miliziani lealisti di Gheddafi e liberati poi da altri due soldati libici.
 
«Il primo pensiero va alla famiglia dell’autista, che ha perduto la vita per permettere a noi giornalisti di fare il nostro lavoro…» Sono state le prime parole di Claudio dopo la liberazione. Diversi di noi, di Famiglia Cristiana, l’hanno conosciuto. Ci abbiamo viaggiato e lavorato insieme. Proprio quelle parole ci aspettavamo da lui. Questo anti-eroe nato a Sesto San Giovanni, alle porte di Milano, che da trent’anni gira per le strade polverose dei Sud del mondo e che è ancora capace di commuoversi pensando a quella moglie e a quei figli che non vedranno tornare a casa il padre, ucciso solo per essersi reso conto con qualche secondo di ritardo di essersi infilato nella strada sbagliata. Una vita perduta per una svolta a destra anziché a sinistra, come spesso avviene in queste caotiche situazioni di conflitto, di cambio di regime, di confusione totale, dove l’inviato – quello che non sta in albergo ma consuma le suole in cerca di notizie – è insieme a tutti gli altri esposto agli eventi, al caos degli accadimenti, dentro i quali tenta in qualche modo di raccapezzarsi.
 
È uno strano mestiere quello del giornalista mandato a raccontare un conflitto. Nessuna autorità civile o militare lo “vuole tra i piedi”, o tutt’al più cerca di imbonirlo di propaganda e false notizie. E lui, il cronista, spesso senza scorte né tutele, cerca invece di dribblare controlli e menzogne per raccontare ai suoi lettori lontani quello che sta accadendo, o che sembra accadere. Viene dalla “nera”, Claudio Monici. Ad Avvenire, il quotidiano cattolico, è partito da lì, occupandosi di delitti per la cronaca di Milano. Un giorno di più di 20 anni fa il caporedattore di allora lo paracadutò nell'Afghanistan dei Talebani. Da allora non si è più fermato. Dal 1992, ha cominciato a occuparsi di esteri e di Sud del mondo: dal genocidio del Ruanda nel 1994, alla guerra del Congo (durante la quale subì nei pressi di Goma un altro sequestro, breve ma estremamente scioccante, simile a questo), dai conflitti alle calamità naturali, dall’Africa all’Asia. Sempre con un “filo rosso” a condurre i suoi reportage e le sue cronache: dare voce a chi non ha voce, raccontare la guerra dalla parte di chi la subisce.

Una grande esperienza, un grande inviato, una grande umanità maturata viaggio dopo viaggio, missione dopo missione. Quest’ultima esperienza, per quanto terribile, conferma che il collega è un cronista di razza, non solo perché ha saputo muoversi bene in una situazione estremamente difficile, ma anche perché ha saputo conservare la lucidità e l’umanità necessarie per rimanere quel non-eroe che ha paura, che odia la guerra, che è consapevole fino in fondo del ruolo cruciale di testimone dei fatti che sta interpretando. Insomma, uno di quei giornalisti che rendono ancora orgogliosi di questo mestiere.

Luciano Scalettari
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