10/04/2012
la locandina del film "Mare chiuso", di Andrea Segre e Stefano Liberti.
“Stavamo andando verso un paese migliore, l’Italia” spiega Semere Kahsay, in fuga dall’Eritrea in guerra, che il 6 maggio 2009, insieme ad ottanta somali ed eritrei, riesce ad imbarcarsi per l’Italia. È uno dei protagonisti di “Mare Chiuso”, il documentario sui respingimenti nel Canale di Sicilia proiettato al Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina di Milano. Il corpo centrale è un video girato con il telefonino di un migrante. Nascosto in una simcard e salvato dalle successive perquisizioni, è un documento che conferma quei respingimenti per cui, il 25 febbraio scorso, l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo.
Inizialmente il video mostra l’esultanza dei profughi. Dopo quattro giorni in mare, l’acqua e i biscotti finiti, la barca in avaria, la paura di non farcela, scoppiano in lacrime di gioia quando avvistano la nave Orione della Marina Militare. Comunicano la loro felicità agli italiani: “Siamo salvi! Dio esiste!”. Semere pensa che finalmente conoscerà la figlia Naher e riabbraccerà la moglie, partita un mese prima e al nono mese di gravidanza. Ma una telefonata da Roma trasforma il sogno in incubo. I migranti lo intuiscono dopo alcune ore: “Dalla posizione del sole abbiamo capito che stavamo tornando a Tripoli”. I militari diventano silenziosi e freddi esecutori di ordini superiori. La gioia diventa disperazione: “Ci state gettando nelle mani degli assassini, dei mangiatori di uomini...”, come i libici sono chiamati da chi scappa dai Paesi africani in guerra.
Riportati a forza in Libia, vengono consegnati nelle mani della milizia di Gheddafi e trattati come criminali, seviziati e torturati in carceri disumane. Tra di loro, anche donne e bambini. È la conseguenza degli accordi tra Gheddafi e Berlusconi, del Trattato di Amicizia Italia-Libia, e della “svolta” annunciata dal Governo: dal maggio 2009, tutte le barche dei migranti venivano sistematicamente ricondotte in territorio libico e consegnate alla polizia dell’allora amico Ghedaffi, che, con i soldi italiani e l’aiuto della nostra polizia, aveva il compito di fermare i migranti. Tutto ciò in violazione degli accordi internazionali: secondo la Convenzione di Ginevra, Semere e i suoi compagni avrebbero avuto tutto il diritto di fare domanda di asilo politico. Nel video, si sente Berlusconi dichiarare: “Abbiamo consegnato delle imbarcazioni al fine di riportare i migranti in territorio libico, dove possano facilmente adire l'agenzia delle Nazioni Unite per mostrare le loro situazioni personali e chiedere quindi il diritto di asilo in Italia”.
Proprio nelle stesse ore in cui l’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati condannava l’Italia per i respingimenti spiegando di non aver accesso alle carceri e ai campi di detenzione libici. Andrea Segre, regista insieme a Stefano Liberti di “Mare Chiuso”, sottolinea la scena “paradossale e incredibile” in cui l’Avvocatura di Stato, durante il processo alla Corte di Strasburgo, difende la scelta dei respingimenti, sostenendo che le autorità italiane erano convinte che la Libia tutelasse i diritti umani. D’altronde, spiegava nel 2009 l’amico Gheddafi: “Gli africani non hanno diritto all'asilo politico. Dicono solo bugie e menzogne. Questa gente vive nelle foreste, o nel deserto, e non hanno problemi politici”. Forse ne era convinto anche il Parlamento italiano che nel 2008 approvò il Trattato di Amicizia con l’87 per cento dei voti favorevoli. Eppure, si sapeva cosa succedeva in Libia.
Il Prefetto Mori, capo del Sisde, in un’audizione del Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti del 2005, aveva testimoniato: “I clandestini vengono accalappiati come cani, messi su furgoncini pick-up e liberati in centri di accoglienza dove i sorveglianti per entrare devono mettere i fazzoletti intorno alla bocca per gli odori nauseabondi...». Descriveva il sopraluogo che aveva effettuato in un carcere libico cinque giorni prima dell’incontro dell’allora ministro Pisanu con il colonnello Gheddafi. Dopo il respingimento in Libia, per i protagonisti del documentario segue un anno di terribile carcere libico e poi la fuga, con la guerra del marzo 2011, verso Shousha, un campo profughi al centro del deserto tunisino. Ad un anno di distanza, la maggior parte dei respinti del 6 maggio 2009 vive ancora qui. Altri sono morti nel Mediterraneo durante un secondo viaggio. Semere è uno dei pochi ad aver raggiunto l’Europa: l’abbraccio con la figlia, mai conosciuta, dopo due anni e mezzo di attesa, è la commuovente scena finale del film.
“Mare Chiuso” è nato proprio a Shousha, lo scorso giugno, dove Andrea Segre e Stefano Liberti sono arrivati dopo altri documentari: tra questi, “Come un uomo sulla Terra”, che racconta le condizioni dei migranti africani in Libia e che è stato anche utilizzato come prova durante il processo alla Corte di Strasburgo. Zalab, la loro casa di produzione, di cui Segre è fondatore, “promuove il video partecipativo, realizzando laboratori con chi normalmente non si esprime con il video”. In “Mare Chiuso” - spiega - “la regia ricorre a questo stile: racconti in prima persona, con un forte coinvolgimento dei protagonisti nella costruzione del racconto, senza voce narrante esterna e con attenzione cinematografica all’estetica e alla fotografia dei luoghi in cui abbiamo incontrato i protagonisti: spazi di attesa, luoghi di geometrici silenzi, isole di deserto tunisino, campagne immobili del Sud Italia. Tutte le interviste sono nella lingua madre dei protagonisti, al fine di favorire un racconto intimo e completo della loro esperienza”. Anche la distribuzione del film, che sta girando per l’Italia e che domani sarà proiettato alla Camera, è “particolare”: capillare, ma al di fuori dei grandi circuiti economici, con lo stesso metodo che ha portato al recente successo di pubblico di “Io sono Li”, il precedente film diretto da Segre.
Stefano Pasta