21/09/2011
La polizia sul luogo dell'attentato kamikaze contro Burhanuddin Rabbani, a Kabul.
A pochi giorni dal decimo anniversario (il 7 ottobre) dell’inizio della guerra in Afghanistan, l’assassinio di Burhanuddin Rabbani, 71 anni, già presidente del Paese (1992-1996) tra la cacciata del Governo pro-sovietico e l’arrivo dei talebani (e poi di nuovo, per un mese, alla fine del 2001), leader del Jamiat Al Islami e principale figura dell’opposizione democratica al presidente Karzai, è una pessima notizia.
Rabbani non era un politico qualunque, era un pezzo di storia dell’Afghanistan contemporaneo. Di una storia che, magari, ci piace poco ricordare ma che esiste, conta nel Paese e avrebbe potuto avere comunque una parte importante nella costruzione del suo futuro. Questo leader tagiko (altra connotazione importante: alla seconda etnia dell’Afghanistan viene a mancare un punto di riferimento) ora molto rimpianto era infatti un islamista.
Aveva studiato Legge e Teologia Islamica all’Università di Kabul di cui nel 1963, subito dopo la laurea, era diventato docente. Non contento, nel 1966 si era trasferito in Egitto, presso l’università islamica di Al Azhar, per perfezionare gli studi. Al Cairo era entrato in contatto con i Fratelli Musulmani di cui aveva sposato le teorie (Jamiat Al Islami, il nome del suo movimento politico, vuol dire “Società islamica”), per diventare poi il primo traduttore in farsi delle opere di Sayyid Qutb, appunto il teorico e fondatore dei Fratelli Musulmani.
Tornato in patria nel 1968, aveva rapidamente scalato i vertici di Jamiat Al Islami fino a diventarne già nel 1972 il capo assoluto. Nel 1974 il Governo tentò di arrestarlo ma Rabbani riuscì a fuggire sulle montagne, protetto dagli studenti dell’Università. Nel 1992, quando il Governo filo-sovietico cadde, i suoi mujaheddin furono i primi a entrare nella capitale Kabul.
Negli ultimi tempi Rabbani era diventato una figura chiave per le speranze di pace in Afghanistan. Era l’unico, infatti, a poter dialogare con tutte le formazioni che si oppongono con le armi alla normalizzazione del Paese: grazie al suo impeccabile curriculum islamista, poteva trattare con i talebani (cioè con la guerriglia spinta da motivazioni politico-religiose), mentre con i “signori della guerra” l’intesa veniva facilitata dal comune passato di combattenti e anche dal fatto che, quale leader tagiko, Rabbani aveva un’influenza decisiva sui territori del Nord e sui confini che aprono ai traffici la strada della Russia.
Dopo dieci anni di guerra l’Afghanistan è ancora sospeso in una transizione che pare senza sbocchi. L’uccisione di Rabbani, colpito da un kamikaze che si è introdotto nella sua casa proprio durante un incontro con esponenti talibani, riporta pericolosamente indietro la lancette dell’orologio. E che un leader islamista fosse diventato così importante per il “nuovo Afghanistan”, la dice lunga sui risultati di questa guerra ormai decennale.
Fulvio Scaglione