27/06/2011
Umberto Bossi e Roberto Maroni all'ultimo raduno di Pontida.
Che nel monolito leghista ci fossero delle crepe si cominciò a capire mesi fa, esattamente a fine febbraio, per la curiosa faccenda di Radio Padania Libera. Tanto libera non doveva essere questa emittente, che dapprima aveva concordato con Lucia Annunziata una diretta su Raitre ma poi aveva disdetto l’impegno, evidentemente per ordini dall’alto. Per giorni era stata sommersa dalle telefonate dei militanti, furiosi con Berlusconi per le serate di Arcore e guai connessi. Ma erano panni da lavare in casa, decisero i capi. Enfatizzarli su una Tv nazionale sarebbe stato un grosso errore.
In seguito Ruby è rimasta sullo sfondo, come una delle tante cause che hanno scatenato il malumore leghista. Oggi c’è ben altro. Come si è visto a Pontida, con gli appelli alla secessione e le lenzuolate su Maroni premier, sta prendendo forma un dissenso per ora circoscritto, ma nemmeno tanto timido, che investe la stessa leadership di Bossi.
Questa linea critica ha avuto quale conseguenza il tentativo, corposo ancorché abortito, di sostituire il capogruppo della Camera, troppo berlusconiano. Era una manovra pilotata da Maroni, che poteva contare sui quattro quinti dei deputati. Il veto di Bossi, irritato con i suoi come mai s’era visto, si è articolato in tre punti: 1) a tenere sotto controllo la Lega è la base, non Maroni; 2) se Maroni non è soddisfatto, peggio per lui; 3) “ci metto due secondi a espellere dalla Lega chi fa baccano”. Compreso, superfluo dirlo, quel ministro dell’Interno che pure è tra i fondatori del movimento.
A lume di naso, per il momento non si espellerà nessuno. Però Bossi dovrebbe mettersi d’accordo con se stesso. La conclamata volontà della base leghista, per non parlare delle sue prerogative in fatto di controllo, è vistosamente contraddetta dal proposito di agire d’autorità. Bossi potrà anche sostenere che, se dovesse buttar fuori qualcuno, ciò avverrebbe in ossequio agli umori dei militanti. Solo che costoro, dopo le batoste elettorali e referendarie, sembrano aderire assai più agli intenti di Maroni che a quelli del Senatur.
Quindi non è la base a schernire e minacciare Maroni. E’ lo stesso leader, sorretto da quel gruppetto di intimi che i giornali definiscono il “cerchio magico” e assomiglia, in buona sostanza, a un ristretto manipolo di pretoriani che lega le proprie sorti a quelle del Gran Capo. Il quale si degna di concedere a Maroni un “perdono” tattico, che lascia tuttavia irrisolta la vertenza.
Come contorno, tanto per calmare le acque, abbiamo gli attacchi contro Napoli e Roma, i contrasti sulla Libia, l’insistenza su quella velleitaria cavolata che sono i ministeri al nord, l’accenno a “imbrogli” e a un “tirar troppo la corda” di cui sarebbe corresponsabile lo stesso premier. Sono campagne a fini interni, per convincere i militanti che la Lega è sempre un partito “di lotta” prima che “di governo”. Ma l’impressione che se ne ricava è di disordine misto a impotenza. Per il momento. Ora poi comincia il processo per Ruby, chissà che allegria in casa leghista.
Giorgio Vecchiato