«Rivolgiamo un appello al Governo», scriveva Montalcini «affinché non cancelli il futuro di tanti giovani ricercatori, che coltivano la speranza di poter fare ricerca in Italia. Il decreto legge su semplificazioni e sviluppo, già approvato alla Camera e ora in discussione al Senato, cancella i principi di trasparenza e merito alla base delle norme che dal 2006 hanno consentito di finanziare i progetti di ricerca dei giovani scienziati under 40 attraverso il meccanismo della peer review, la valutazione tra pari. Se questa legge non sarà modificata, tale selezione passerà di nuovo attraverso le stanze chiuse dei Ministeri dell'Istruzione e della Salute permettendo l’accesso ai finanziamenti solo a chi ha le giuste amicizie e non la necessaria preparazione acquisita in anni di studio, magari negli scantinati di qualche Facoltà per pochi euro. Un atto inaccettabile soprattutto da un governo guidato da un premier scelto per merito e competenza. Con il nostro impegno congiunto, nel 2006, avevamo ottenuto invece che la valutazione per assegnare i finanziamenti fosse gestita da una commissione composta da ricercatori anch'essi sotto i quarant'anni, di cui almeno la metà operanti in enti di ricerca non italiani. Una metodologia democratica e trasparente, adottata da anni a livello internazionale».
Se ne va oggi a un'età in cui avrebbe potuto legittimamente pensare di non avere altro futuro, che tutto fosse alle sue spalle. E invece guardava avanti. Evidentemente non aveva dimenticato le opportunità e gli ostacoli con cui da giovane donna ebrea aveva dovuto confrontarsi, in un mondo del lavoro, a quell'epoca ancor più di oggi, pensato per esperti signori, quasi tutti maschi. Non può essere un caso se, da donna di profondo sapere, che nella sua antica ordinatissima eleganza, era stata in anni recenti anche oggetto di una satira bonaria, si è battuta fino all'ultimo, come si vede ancor oggi nel sito della Fondazione intitolata al suo nome, perché le donne del mondo, le africane soprattutto, non fossero escluse dall'istruzione che avrebbe potuto migliorare la qualità della loro vita e dei loro diritti.
Anche lei, in frangenti diversi, per affermare il proprio diritto agli studi di medicina, aveva dovuto lottare. Prima in casa, contro il volere del padre, e poi contro le leggi razziali. Espulsa dall'università aveva continuato i suoi esperimenti in un laboratorio casalingo, per poi lavorare per trent'anni negli Stati uniti, dove gettò le basi degli studi sui fattori di crescita delle cellule nervose che nel 1986 l'hanno portata al premio Nobel. Un prestigio che attribuiva più all'impegno e alla tenacia che alle doti. Di sé usava dire: «La mia è un'intelligenza mediocre». Ma si riconosceva la fantasia per uscire dagli schemi. Se non l'avesse avuta avuta, mai sarebbe arrivata lassù.