18/06/2012
Padre Samir Khalil Samir (Milestone).
L'Egitto attende di sapere chi sarà il suo nuovo presidente, il primo dopo la lunga era Mubarak. Il risultato definitivo sarà annunciato il 21 giugno. Ma, secondo i dati non ancora confermati, il vincitore del ballottaggio del 16 e 17 giugno sarebbe Mohamed Morsi, candidato dei Fratelli musulmani, che l'avrebbe spuntata su Ahmed Shafiq, ex generale ed ex premier durante la presidenza di Mubarak. Intanto, subito prima del voto, la Corte costituzionale egiziana ha decretato lo scioglimento del Parlamento - dominato dagli islamici - per l'incostituzionalità di due leggi-chiave. Solo due giorni prima, il Parlamento aveva votato per la seconda volta i componenti dell'assemblea costituente che dovrebbe scrivere la nuova Costituzione, definendo anche i poteri del nuovo presidente.
Ingegnere di 61 anni, con master e insegnamenti universitari negli Stati Uniti e in Egitto, Mohamed Morsi mira a costruire uno Stato non teocratico, ma che faccia esplicito riferimento alla sharia, la legge coranica. Come parlamentare fra il 2000 e il 2005 ha combattuto la corruzione ed è ricordato in particolare per il suo conservatorismo sociale, ma nel suo programma politico ha inserito l'impegno a promuovere la partecipazione femminile nella sfera pubblica, rimuovendo le varie forme di discriminazione verso le donne. Dal canto loro, i copti hanno scelto in massa Ahmed Shafiq, considerato come unico baluardo della democrazia e dei diritti della minoranza cristiana.
Se, come i risultati non ufficiali fanno prevedere, vince la linea islamista, cosa accadrà nei rapporti fra musulmani e cristiani in Egitto? A spiegarlo è padre Samir Khalil Samir, gesuita egiziano, uno dei più autorevoli studiosi al mondo di Islamistica, Oriente cristiano e relazioni fra cristiani e musulmani, professore all'Université Saint-Joseph di Beirut (dove ha fondato il Cedrac, Centro di documentazione e ricerche arabo-cristiane) e al Pontificio Istituto Orientale di Roma.
Mohammed Morsy, candidato dei Fratelli Musulmani, saluta i suoi sostenitori (foto Reuters).
Padre Samir, lei ritiene che il conflitto tra musulmani e copti abbia una radice politica? Cioè
che sia stato creato e alimentato per fini politici da chi stava al potere, come molti dicono?
«Non credo nell'ipotesi che il conflitto sia stato creato solo
teoricamente. Ho visto varie tappe nella vita egiziana: prima della
rivoluzione del 1952, la convivenza non creava problemi, il cristiano
non si sentiva un cittadino di seconda classe; era minoritario, ma non
aveva una posizione socio-politica inferiore. Aveva anche tante
opportunità di contribuire alla vita sociale, culturale, economica,
politica. Con la rivoluzione è nato un atteggiamento anti-occidentale
che poteva essere visto che anti-cristiano, per il fatto che il
musulmano considera l'Occidente come cristiano. Con le riforme
socialiste all'epoca di Nasser, la comunità cristiana è stata
economicamente e culturalmente indebolita. Poi è venuta l'ideologia
panarabica e con essa sono arrivate le tendenze islamiste sempre più
radicali. E l'ideologia dei Fratelli Musulmani si è rinforzata».
Che cosa predicano i Fratelli Musulmani?
«Il sentimento che i Paesi arabi sono molto in ritardo sul resto del
mondo è molto vissuto da noi. La domanda è: come uscire da questa
situazione? La risposta, arrivata con i Fratelli Musulmani negli anni
'70, è stata: "il motivo è che ci siamo allontanati dall'islam
originale". E la soluzione che propongono è: "più praticheremo un islam
come quello dei primi secoli più saremo progrediti e forti". I Salafiti
vanno oltre: per loro si tratta di tornare alle origini, cioè imitare
Maometto e la prima generazione musulmana, incluso fare la guerra agli
infedeli, ai nemici di Dio. E' il gihàd, che non vuol dire lotta
spirituale, come si ripete in Occidente, bensì lotta sul sentiero di
Dio, per difendere la causa di Dio. Nell'uso comune, la parola gihàd corrisponde al concetto occidentale di "guerra santa".
La corrente anti-copta viene da questa ideologia radicale, che pensa
che i copti debbano essere soggiogati perché non fanno parte della umma,
la nazione islamica, nazione con un significato politico, sociale,
culturale e religioso. I cristiani chiedono semplicemente di essere
considerati "cittadini" (muwātin), concetto che viene dalla parola watan,
che significa "patria": vogliono cioè essere considerati "compatrioti",
senza connotazione religiosa. Contro il modello radicale reagisce una
parte degli
intellettuali: l'università al-Azhar del
Cairo, la più famosa del mondo sunnita, in due documenti (uno del 2011,
l'altro di gennaio 2012) ha ribadito che il vero islam è moderato ed è
la religione del "giusto mezzo"».
Una manifestazione di egiziani copti per la liberazione di cristiani incarcerati (Reuters).
Pensa che da parte dei copti ci sia, viceversa, una forma di intolleranza verso i musulmani?
«L'islam è un progetto integrale e integralista. E i copti, da parte
loro, reagiscono in un modo che io non condivido: si ripiegano su se
stessi, con l'autoghettizzazione, perché si sentono minacciati
dall'onnipresenza dell'islam. E quando si dice onnipresenza non è
un'espressione esagerata: è una realtà. La propaganda islamica invade
tutto: autobus, taxi, strade, radio, Tv, giornali, esercito,
università.... Un vero lavaggio del cervello».
Quanto è decisivo il ruolo delle scuole e dell'istruzione per favorire la conciliazione e il rispetto verso i cristiani in Egitto e nel mondo arabo?
«Le scuole cattoliche sono molto importanti per favorire il dialogo e il
rispetto reciproco: i nostri istituti sono aperti a tutti, non solo ai
cristiani. Almeno un terzo degli studenti in genere sono musulmani. Le
scuole cattoliche d'Alto Egitto, all'inizio, essendo gratuite, erano
rivolte ai poveri della comunità; man mano però si sono aperte a tutti e
sono finanziate dalla Chiesa cattolica. Lo stesso vale per la sanità e
le altre opere sociali. La testimonianza della carità è lo strumento
migliore per favorire il rispetto reciproco. Alla violenza si risponde
con il servizio e l'amicizia. E la funzione educativa è fondamentale, in
un Paese con circa il 40% della popolazione analfabeta».
La messa per i 40 giorni dalla morte di Shenouda III, il papa dei copti, al Cairo (Ansa).
La Turchia può rappresentare un modello politico?
«Per l'Egitto sì. Non lo è per la Tunisia, che è più laicista. La Turchia offre un islamismo reale ma discreto, pretende di essere uno Stato laico, ma tutti sanno che l'islamismo sta penetrando dappertutto, con una veste tollerante e moderata. Perciò potrà servire d'esempio all'Egitto per un islamismo moderato».
Pensa che, di fronte alla povertà e alla disoccupazione, sarà
comunque l'economia a dettare le scelte politiche della popolazione
egiziana?
«L'Egitto vuole mangiare, lavorare, sopravvivere: dei 90 milioni di
abitanti il 40% (36 milioni circa) vive sotto la soglia di povertà. Le
priorità, allora, sono l'economia e il lavoro. I Fratelli Musulmani
da un lato fanno promesse, dall'altro usano le opere di assistenza sociale, così la gente ripone fiducia in loro. Ma bisogna vedere cosa succederà quando metteranno mano
ai problemi dell'economia. Il loro motto è "l'islam è la soluzione!",
motto tanto più convincente in quanto non è mai stato applicato. Ad ogni
problema rispondono "l'islam è la soluzione!", ma non dicono mai come.
Penso che per motivi di realismo e di rispetto del popolo, se vincono
dobbiamo lasciare che prendano il potere. Poi vediamo quale sarà il
risultato. Giochiamo al gioco della democrazia, casosami cercheremo di rovesciarli dopo o di correggere la loro linea. Non penso che il loro sistema sia il migliore, ma dobbiamo
rispettare il gioco democratico e allo stesso tempo mettere la loro ideologia
alla prova».
Giulia Cerqueti