08/12/2012
Una scena del Lohengrin in scena alla Scala (Ansa).
Inaugurazione della stagione scaligera 2012-13
caratterizzata da un fiero dilemma legato alla data bicentenaria: chi
celebrare, Verdi o Wagner? Roma, Napoli e Bologna hanno optato per Verdi,
Venezia per entrambi (Otello e Tristano), Torino e Milano per Wagner.
Lo stesso Giorgio Napolitano, assente alla “prima” per imprescindibili doveri
istituzionali, si è sforzato di stemperare ogni polemica pretestuosa, affermando
salomonicamente che «quei due grandissimi della musica del XIX secolo
appartengono entrambi alla storia della cultura e della creatività europea».
Ecco dunque Lohengrin tornare alla Scala per la diciannovesima volta in
140 anni, a conferma che si tratta dell’opera wagneriana di gran lunga più
popolare in Italia.
Non so quanto gli abbia giovato l’interpretazione offerta
dal regista, figura ormai impostasi come vero demiurgo di ogni spettacolo
d’opera. Lontana da qualsiasi concessione al naturalismo di tradizione
(ovviamente il cigno vi latita) e priva di aura mistica, quella di Claus Guth è
una lettura introspettiva, con sfoggio di allusioni, simboli e incursioni
nell’inconscio, sulla cui comprensibilità immediata è forse lecito nutrire
qualche dubbio. Musicalmente le cose sono filate molto meglio, grazie
soprattutto alla fervida e competente bacchetta di Daniel Barenboim, che ha
privilegiato i non pochi momenti squisitamente lirici dell’opera, e al
magnifico coro diretto da Bruno Casoni.
Chiamata all’ultimo minuto a sostituire Ann Petersen, caduta
anch’essa vittima dell’influenza al pari di Anja Harteros, titolare della parte
di Elsa, Annette Dasch non ha una voce proprio celestiale (ricordarsi della
splendida Tebaldi come paradigma), ma ha guadagnato in calore espressivo con il
progredire dell’opera.
Evelyn Herlitzius, nei panni della demoniaca Ortrud, ha
viceversa giganteggiato vocalmente e scenicamente, offrendo un ritratto
plausibile del suo personaggio. Cosa che invece non è riuscita a Tomas Tomasson
quale Telramund, il bieco avversario di Lohengrin: carenze di vario genere (da
una certa congenita debolezza dello strumento all’irresistibile tendenza a
gridare) ne hanno fatto il solo anello debole di una compagnia complessivamente
apprezzabile.
Il re Enrico di René Pape e l’Araldo (parte breve ma
difficile) di Zeliko Lucic completavano il cast, che ha avuto, come previsto,
la sua punta di diamante in Jonas Kaufmann, l’elemento più richiesto, e con
ragione, dell’attuale panorama tenorile internazionale. Non è che tutto di lui
sia pienamente condivisibile, a partire dal timbro di stampo baritonale, ma, al
di là di certa compiaciuta affettazione che talora si avverte nel suo canto,
non si può fare a meno di ammirare il dominio assoluto che egli sfodera nella
distribuzione dei colori, il gioco dei piani e pianissimi, nonché le
ragguardevoli doti d’attore. Gran finale con l’Inno di Mameli (cantato anche
dai tedeschi Pape e Kaufmann) e acclamazioni generali per tutti, salvo qualche
scontato dissenso rivolto a Guth.
Giorgio Gualerzi