15/06/2011
Il presidente Bashar al Assad.
Migliaia di morti, città prese sotto i cingoli dei carri
armati, donne e bambini nel mirino dei fucili dell’esercito,
villaggi rastrellati. Perché, allora, si parla poco di ciò che accade in Siria? Perché siamo stati così tanto toccati dalle repressioni in Egitto e Tunisia, per non parlare della Libia, e così poco dalle sofferenze dei siriani sotto il tallone del regime? L’unica conclusione logica è questa: nessuno, fuori dalla Siria, vuole
davvero la fine del regime di Bashar Assad.
Ben Alì in Tunisia è stato spazzato via in un attimo. Hosni Mubarak in Egitto ha resistito più a lungo, ma così facendo ha solo impedito ai suoi di riciclarsi. Di Gheddafi
sappiamo tutto: contro la sua Libia si è mobilitato un robusto pezzo
delle armate di Occidente (Usa, Italia, Francia, Gran Bretagna…) e
Medio Oriente (Qatar).
Contro Assad, invece, niente. E lui, capo di un regime palesemente incapace di rispondere a una popolazione giovane (22 milioni e mezzo di persone per il 35% sotto i 14 anni), istruita (11 anni di scuola in media per persona, e il 5% del budget dello Stato speso per l’istruzione) e inferocita (il 12% della popolazione vive sotto la soglia della povertà), può continuare a sparare sulla gente, certo che nessuno interverrà per farlo smettere.
Un'occhiata alla cartina
Un mistero? Per nulla. Basta dare un’occhiata alla cartina, e alla situazione
dei Paesi confinanti, per capire perché. La Turchia pratica da anni la
politica “zero problemi con i vicini”, il premier Erdogan
ha in ballo grosse sfide interne (cambiare la Costituzione in senso
presidenziale, mantenere il forte ritmo della crescita economica, da
anni oltre il 7%) e la voglia di veder saltar per aria il regime di
Damasco, con tutte le conseguenze, è pari a zero. Analogo discorso vale
per l’Iraq, che di problemi ne ha a pacchi e, in più, è pressato a Est
dall’Iran.
A Sud, la Giordania della monarchia hascemita pare
aver superato la fase acuta della contestazione popolare ma vive in
precario equilibrio e deve ancora capire due cose: quali effetti
produrrà il patto tra le fazioni palestinesi di Hamas e Al Fatah e quali
conseguenze esso potrà avere sulla popolazione giordana, al 65% di
origine appunto palestinese.
L'ombra degli Usa
A Ovest ci sono Israele e Libano. Israele
ha
mostrato di preferire le dittature dei vari
Mubarak, Ben Alì e Gheddafi alla prospettiva di una stagione di tumulti e
novità comunque imprevedibili. Il nemico noto è meglio di quello
ignoto, e il discorso calza a pennello su Assad, nemico sì ma poco
pericoloso. Il Libano: Hezbollah ha da sempre un buon rapporto con il
regime di Assad
(gran fornitore di armi e ottimo tramite con l’Iran) ma negli ultimi
anni anche il fronte filo-occidentale e filo-saudita guidato da Saad
Hariri era riuscito a costruire un modus vivendi accettabile
con gli ex occupanti siriani. In ogni caso i fragili equilibrii che
regnano a Beirut (dove è stato formato un Governo dopo sei mesi di
vuoto e dove è stato da poco eletto il nuovo patriarca maronita,
Bishara al Rai, già vescovo di Byblos) tutto fanno desiderare tranne che
il tracollo della Siria di Assad.
Su tutti, poi aleggia l’ombra degli Usa. La Casa Bianca ha troppe
partite aperte in Medio Oriente
(Tunisia, Egitto e Libia, i colloqui di pace tra Israele e palestinesi,
la precaria sopravvivenza del regime sunnita in Bahrein e l’impegno
militare dell’Arabia Saudita per sostenerlo, la probabile fine del
regime dello Yemen, da anni fedele agli Usa) per volersi occupare anche
della Siria. Tutto sommato, meglio che Assad resti al potere, almeno in
questa fase. Una frammentazione del Paese, quasi certa in caso di
collasso del regime, rischierebbe
di volgersi a favore dell’Iran,
in un effetto domino che potrebbe poi travolgere anche l’Iraq e la
Giordania, di fatto due protettorati americani.
Dunque, silenzio. A quanto pare, il desiderio di libertà e benessere dei siriani non merita un'azione internazionale. Nemmeno da parte dei media.
Fulvio Scaglione