31/07/2011
Nell'immagine Reuters: i funerali di una vittima della repressione in Siria.
Nel 1982 il presidente Afez al Assad, padre dell’attuale presidente
Bashar, mandò l’esercito ad Hama per stroncare la rivolta dei Fratelli
Musulmani. Ci furono migliaia di morti e la città fu quasi rasa al
suolo. Comandava le truppe Rifaat, fratello del Presidente. Oggi la
storia si ripete: Bashar al Assad ha mandato il fratello Maher,
comandante della Quarta Divisione (uno dei reparti d’élite dell’esercito
siriano) a massacrare i cittadini di Hama che da mesi protestano contro
il regime.
Pochi giorni prima lo stesso trattamento (carri armati e
mitragliatrici per le strade, cecchini sui tetti a sparare ai civili)
era toccato a un’altra città, Homs, con altre decine di morti.
Il conto dei caduti nella repressione sta ormai rapidamente salendo
verso le 2 mila vittime (con oltre 15 arresti e circa 3 mila persone
scomparse). Ma la differenza tra le manifestazioni del 1982 e queste del
2011 è abissale. Come in tutto il resto del Medio Oriente, la
sollevazione in Siria non ha radici religiose, né moderate né estreme. Dopo
le violenze sulla popolazione di Homs, al contrario, si sono svolti
cortei al grido di “Musulmani, cristiani e alawiti uniti”. E
molti autorevoli esponenti alawiti (gli alawiti, un ramo dello sciismo,
fanno risalire le loro origini all’undicesimo imam sciita, Hasan al
Askari; è alawita tutto il clan degli Assad, n.d.r) hanno condannato gli attacchi e i saccheggi contro i negozi dei sunniti.
Bashar al Assad, presidente della Siria.
E’ proprio il regime di Assad, al contrario, a giocare la carta religiosa. Munzer e Fawwas, cugini del Presidente, hanno organizzato e scatenato per le strade bande di shabiha,
un incrocio tra i miliziani e i teppisti, al preciso scopo di
vandalizzare le imprese commerciali dei sunniti, che sono il cuore della
protesta. L’idea è di mettere tutti contro tutti (sunniti contro
alawiti e cristiani) sfruttando appunto le divisioni etniche e
religiose, per nascondere il vero nodo: il contrasto ormai
insanabile tra la borghesia commerciale e imprenditoriale della Siria,
che è in maggioranza sunnita (un tratto in comune con il vicino Libano),
e l’apparato dello Stato che è alawita.
Efficienza contro parassitismo, mercato contro garanzie di clan, produzione contro rendite.
Uno scontro che può solo acuirsi, visto che la fuga di capitale dalla
Siria ha raggiunto i 20 miliardi di dollari, il giro d’affari del
commercio è dimezzato, la produzione indutriale anche e la
disoccupazione ovviamente sale. Il che fa saltare quella specie di patto
sociale che le due parti avevano stipulato tempo addietro: tu comandi e
io guadagno, a te il potere politico e a me quello economico.
Sempre per rimanere alla questione religiosa: ora Assad
conta, oltre che sulla violenza di esercito e milizie, anche sull’arrivo
del Ramadan, che nei Paesi musulmani tradizionalmente comporta un
rallentamento di ogni attività diurna. Quest’anno il mese del
digiuno e della preghiera capita in piena estate, con temperature ben
oltre i 40 gradi e l’obbligo di astenersi da cibo e bevande durante
l’intera giornata. Il che è un’ulteriore, oggettiva, difficoltà per le
iniziative del fronte di protesta.
Resta però un fatto: a dispetto dei
sistemi crudeli adottati dal regime e dell’indifferenza della comunità
internazionale, la contestazione contro Assad e il suo Governo è sempre
cresciuta, e tra le grandi città siriane quelle calme e inerti sono
ormai pochissime anche se importanti: in sostanza, la capitale Damasco e
Aleppo. Riuscirà il Ramadan dove non sono riusciti i suoi cecchini e
carri armati?
Fulvio Scaglione