Sud Sudan, la fatica di crescere

Ottenuta l'indipendenza, il Sud Sudan fatica per crescere come nazione autonoma. La questione del petrolio e poi quella dell'acqua, mentre cresce il problema corruzione.

19/05/2013
Padre Daniele Moschetti.
Padre Daniele Moschetti.

Un medico per 65.574 abitanti; 47,6 tra infermieri e ostetriche ogni 39.088 abitanti; 3 ospedali-scuole di formazione, 7 ospedali di Regione, 16 ospedali di Contea, alcuni centri di salute, un'aspettativa di vita di 66 anni. Il 48% dei bambini sotto i 5 anni sono malnutriti, la mortalità infantile e quella materna restano elevate.

Sono le cifre della sanità nel Sud Sudan, 54° Stato africano, nato ufficialmente il 9 luglio 2011, dopo un referendum che ha sancito la volontà di indipendenza dal Nord praticamente all'unanimità (il 98,83% dei cittadini ha votato sì). «Un sistema salute in mano soprattutto alle Organizzazioni internazionali, perché lo Stato in questi due anni non ha ancora saputo ben organizzare i servizi di base», spiega il dottor Vincenzo Riboni, medico volontario della Ong padovana Cuamm-Medici con l'Africa, che dal 2006 supporta l'ospedale di Yirol, nello Stato dei Laghi, e quello di Lui, nel Western Equatoria.

Le risorse per far partire lo sviluppo, ci sarebbero. Ma «prima degli aiuti umanitari, serve la pace», ha ribadito recentemente monsignor Michael Didi Mangoria, vescovo coadiutore di El Obeid, diocesi che comprende la regione del Darfur. Ovviamente, ci si aspetterebbe che con l'indipendenza, Nord e Sud si fossero riappacificati. In realtà la tensione resta alta, oltre che nel Darfur, nel Sud Kordofan e nel Blue Nile: sono aree di confine, il cui status non era stato previsto dal referendum. E anche ad Abyei, dove si trova la maggior parte dei giacimenti petroliferi, la situazione è delicata. Dal petrolio dipende l'80% delle entrate del Sudan; ecco perché il presidente Al Bashir non ha alcuna intenzione di perderle.

«All'indomani dell'indipendenza - spiega padre Daniele Moschetti, provinciale dei Comboniani, di stanza a Juba, in Sud Sudan - il Sud aveva “chiuso i rubinetti”, non riuscendo a trovare un accordo con il Nord - il quale non ha greggio, ma gestisce l'unico oleodotto (1.200 chilometri) – su costi e profitti reciproci. Khartoum esigeva milioni di dollari per il “diritto di transito” attraverso il territorio sudanese. Questi quasi due anni di stallo hanno messo economicamente in ginocchio il Nord che, oltre a perdere la maggior fonte di entrate, ha visto il prezzo della benzina impennarsi, e così pure l'inflazione, provocando un aumento vertiginoso dei prezzi, specie per i prodotti alimentari di base. Ma il danno il Sud l'ha cagionato anche a sé stesso, perché, pur avendo la materia prima (l'85% delle riserve di greggio, con una capacità di estrazione giornaliera fra i 350 e i 400mila barili), non disponeva della possibilità di trasportarla».

C'è il progetto di realizzare altri due oleodotti, uno attraverso Etiopia e Gibuti e l'altro attraverso il Kenya, ma ci vorranno anni. «Intanto, per fortuna, lo scorso ottobre, l'accordo è stato raggiunto, e il petrolio ha ripreso a circolare e, con esso, i suoi proventi che, però, finiscono nelle tasche di pochi. Il popolo non ne beneficia (oltre il 50% dei Sud sudanesi è sotto la soglia di povertà). D'altra parte - prosegue padre Moschetti -, il Governo ha puntato su quest'unica risorsa, in maniera poco lungimirante, visto che durerà al massimo ancora trent'anni. E pensare che il Sud Sudan è ricco di bestiame: 11 milioni di vacche che, insieme a pecore e capre, fanno 31 milioni di capi. Eppure non c'è un'industria casearia. La terra sarebbe un'altra risorsa, ma già il 9% di essa era stato assegnato ancor prima dell'indipendenza; da allora non sono più stati fatti dei rilievi, ma è presumibile che la corsa all'accaparramento si sia intensificata. La pesca è fondamentale, così come l'acqua».

Ma proprio il controllo delle risorse idriche - scarse e minacciate da carestie, esplosione demografica, inquinamento, disastri, siccità e inondazioni - sarà sempre più causa di tensioni e controversie internazionali. «Il Sudan e il Sud Sudan sono due dei 10 stati (437 milioni di persone) che dipendono dal bacino idrografico del Nilo, tra i più vasti del mondo. Attualmente, l'Egitto ha il diritto esclusivo a sfruttare oltre il 66% delle sue acque. Ma gli altri Paesi rivieraschi vogliono smantellare quel monopolio; non riconoscono più un vincolo che risale a un accordo con l'Inghilterra, datato 1929, e neppure quello aggiornato bilateralmente da Egitto e Sudan, nel 1959».

L'altra priorità è l'istruzione. Nel Sud Sudan, solo il 30% dei ragazzi fra i 6 e i 17 anni, sa leggere e scrivere; solo il 12% dei minori maschi (meno del 10% le bambine) arriva alla licenza della scuola primaria. Il numero di insegnanti copre solo il 13% del fabbisogno.


Un allevamento di bestiame in Sud Sudan (foto del servizio: R. Gobbo).
Un allevamento di bestiame in Sud Sudan (foto del servizio: R. Gobbo).

-  Padre Moschetti, qual è il compito della Chiesa?

«Prima del 2005 (anno del Trattato di pace della seconda guerra civile sudanese), la Chiesa faceva pressione al di fuori del Sud Sudan per attirare l'attenzione internazionale. Ha contribuito molto all'indipendenza perché, avendo una diffusione capillare (grazie anche alle radio diocesane), ha potuto arrivare anche là dove né l'esercito di liberazione, né il governo transitorio avevano la capacità di arrivare e neppure godevano della stessa credibilità. Dopo l'indipendenza, la situazione politica è cambiata, così come il ruolo della Chiesa. Il presidente Salva Kiir è cattolico, ma è vicino ugualmente ai cattolici e ai protestanti, ma anche alla Chiesa anglicana, il cui primate è un Dinka, quindi appartiene alla stessa etnia. La Conferenza episcopale è unica, ma nel Sud, la maggioranza è cristiana (cattolici il 60%, il resto protestanti), e ha 7 diocesi; al Nord (nel Sudan), la maggioranza è musulmana e le diocesi cristiane sono 2 (per circa 700mila cristiani). Al Nord la Chiesa non ha più forza, soppiantata dall'instaurazione della shari'a; al Sud, è molto impegnata sul fronte della riconciliazione, perché il conflitto è anche tra le due etnie dominanti: i Dinka (3 milioni) e i Nuer (un milione e mezzo). Sono entrambi guerrieri, litigiosi da sempre; si contendono le vacche, patrimonio e orgoglio del popolo. Il problema è che questa gente è piena di armi: è il risultato di quarant'anni di guerra civile. Insomma, il Sud Sudan è stato fatto, adesso bisogna fare i Sud sudanesi».

- Ero a Juba nel 2011, due mesi prima della dichiarazione di indipendenza. Era maggio, piena stagione delle piogge, le strade erano paludi. È migliorata la situazione?

«A Juba città le strade sono state asfaltate, anche per una questione d'immagine, visto che per la proclamazione dell'indipendenza sono arrivate personalità da varie parti del mondo. Ma, appena fuori, l'asfalto non c'è più; quando piove, è impossibile muoversi con l'auto. Juba oggi è diventata una sorta di eldorado, per faccendieri provenienti da ogni dove, per fare business. In un Paese che non ancora sviluppato un sistema di legalità, l'impunità è grande. Le banche sono quasi tutte kenyane, gli ugandesi costruiscono case, gli etiopi costruiscono gli hotel, palazzoni alti anche 10 piani, dove le camere costano 200 dollari a notte. Juba oggi è la seconda città più costosa dell'Africa, dopo Luanda, in Angola. Conta ormai oltre un milione e mezzo di abitanti e conosce un'urbanizzazione selvaggia, con tutti gli aspetti negativi che comporta. L'élite è ricchissima, la stragrande maggioranza della popolazione, è povera; la corruzione dilaga, la prostituzione è un grande affare, e i bambini sniffano agli angoli delle strade».

Romina Gobbo
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