La nostra barbarie quotidiana

Immigrati reimpatriati con un bavaglio di nastro adesivo, soldati che scherzano con i corpi dei nemici. Le immagini brutali che dicono molto di noi.

19/04/2012
Una delle foto agghiaccianti pubblicate dal Los Angeles Times.
Una delle foto agghiaccianti pubblicate dal Los Angeles Times.

Il volto – il tuo, il mio, il nostro, il loro – reca tracce di infinito. L’incontro con l’altro avviene cercandone il volto. D’altronde il volto è la prima cosa che vediamo del prossimo. Ed è lì che Dio si fa evidente. Proprio a partire dal volto, le visage, il francese Emmanuel Levinas (12 gennaio 1905 - 25 dicembre 1995), uno dei maggiori filosofi della seconda metà del Novecento, ha elaborato il suo pensiero intriso di sapienza biblica, sottolineando la potenza di uno sguardo che incrocia i nostri occhi, di un volto che ci fissa e che genera in noi piena responsabilità. Che ne è di mio fratello?  Cosa faccio per chi mi è stato messo a fianco?  

Ieri, immagini scattate a migliaia di chilometri di distanza le une dalle altre, in tempi, luoghi e con protagonisti profondamente differenti, ci hanno consegnato un comune senso di pena e di vergogna. Nastro da pacchi a tappare la bocca e fascette di plastica ai polsi: così due immigrati tunisini, scortati da due appartenenti alle forze dell’ordine in borghese, sono stati rimpatriati su un volo Alitalia Roma-Tunisi. Lo ha denunciato il regista Francesco Sperandeo sul suo profilo Facebook, al quale ha allegato una foto di uno dei due tunisini. Alle sue rimostranze, gli agenti avrebbero risposto che si trattava di una “normale operazione di polizia”.  

Dall’altra parte del mondo, il Los Angeles Times ha pubblicato due foto, su 18 giunte complessivamente in suo possesso, con militari Usa sorridenti accanto a corpi di insorti afghani morti o ridotti a brandelli dallo scoppio di un ordigno esplosivo.  Il giornale, nonostante le pressioni che dice di aver avuto dalle autorità americane per non rendere pubblici gli scatti, ha messo in pagina  una prima immagine in cui due soldati ridono mentre tengono sollevate da terra le gambe staccate dal tronco di un attentatore suicida. Nella seconda fotografia, invece, si vede in primo piano un militare americano sorridente mentre alle sue spalle un suo compagno esamina il cadavere di un uomo dagli occhi sbarrati.  

Nei commenti a caldo e in quelli più meditati delle ore successive un aggettivo è stato usato più volte in entrambi i casi: disumano. E siamo daccapo. Il volto dice tanto di noi. Purtroppo dice anche quanto la nostra civiltà (civiltà?) sia arrivata a livelli preoccupanti di barbarie. 

Alberto Chiara
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Postato da lettore02 il 21/04/2012 14:48

Le immagini; se in altri tempi la parola ripetuta come testimonianza ha rappresentato l'identità di una umanità che cercava una sua unità per il progresso, sostituita dalla parola scritta, questa sostituzione ha portato ad un innegabile progresso culturale soprattutto perchè permetteva di ragionare su un identico tema da diversi punti di vista senza snaturare l'origine. Ora è il turno dell'immagine, e in un certo senso è una regressione in quanto l'immagine è un po' come la la sua potenza è immediata e porta l'articolista a sbilanciarsi sul grado di civiltà raggiunto parola, alquanto soggettiva e facilmente manovrabile in quanto dipendente dal contesto. Tuttavia dall’umanità; fermiamoci per cortesia un attimo, chiudiamo gli occhi e facciamo correre a ritroso la storia dell'umanità e vedremmo che motivi per impallidire dall'orrore ne troviamo a iosa. Mentre scrivo, vedo nello spazio sottostante la foto di Breivik, nei giorni scorsi l'ho visto in un telegiornale sprezzante e sorridente di fronte ai suoi accusatori e ai parenti delle vittime e ricordo molto vivi i sentimenti di rabbia e furore soprattutto per la sua arroganza. Il commento che mi è salito dallo stomaco è stato: sparategli in testa subito; poi ho visto il contesto: l'aula con i giudici, i parenti delle vittime, nessuno che tentasse neanche di zittirlo nessuno che si strappava i capelli o che urlasse le sue maledizioni. Quell'immagine l'ho elaborata dentro di me nei momenti successivi e ho compreso che civiltà è non tornare indietro sul cammino che tanto dolorosamente abbiamo compiuto

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