15/10/2011
Somalia: un bambino denutrito a causa della carestia (foto: Ansa).
«È un cocktail micidiale quello che ha messo in ginocchio la Somalia: la carestia più i vent’anni di guerra. La terribile crisi umanitaria attuale non è dovuta soltanto alle due stagioni di piogge che sono saltate. Questa è una regione che da sempre convive con periodi di siccità. Ma ora la mancanza d’acqua va a colpire una popolazione già duramente provata dal conflitto».
È lucida l’analisi di monsignor Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio. Profondo conoscitore del Corno d’Africa (era in Somalia, giovane missionario, già all’epoca in cui la capitale somala aveva una cattedrale e un vescovo, monsignor Colombo, poi ucciso nel 1989), monsignor Bertin non fa sconti quando parla delle condizioni per uscire dalla crisi:
«Sono convinto che si può sconfiggere la fame. Ma non basta la beneficenza estemporanea. Occorre cambiare le istituzioni finanziarie, occorre costruire un mondo più solidale. Solo così si possono eliminare le cause strutturali della estrema povertà in cui versa tanta popolazione del Corno d’Africa».
Monsignor Giorgio Bertin, amministartore apostolico della Somalia (foto: Caritas.org).
- Monsignore, in questo momento di emergenza acuta cosa si può fare?
«Oggi si parla di oltre 13 milioni di persone colpite dalla carestia. Quindi occorre la massima mobilitazione per salvare il maggior numero possibile di vite umane. Caritas Somalia e Caritas Gibuti (delle quali il vescovo è presidente, ndr) sono due realtà piuttosto piccole. Ma sono tanti gli aiuti che stiamo ricevendo e che noi cerchiamo di utilizzare al meglio. La mobilitazione della comunità internazionale è ancora insufficiente rispetto ai bisogni, ma c’è chi si sta impegnando molto: gli Stati Uniti hanno stanziato 736 milioni di dollari; il piccolo Somaliland (la regione autonoma della Somalia inglese, del Nord-est somalo) ci ha inviato pochi giorni fa 700 mila dollari per aiutare i fratelli somali colpiti dalla carestia. Un gesto molto significativo».
- Quali sono le aree e le popolazioni più colpite?
«Tutta la Somalia centro-meridionale, il Sud dell’Etiopia, il Kenya orientale e settentrionale. E, in forma meno grave, Gibuti, l’Eritrea, qualche area della Tanzania e del Sud Sudan. In generale si può dire che i più colpiti sono coloro che vivevano di agricoltura e allevamento, che in queste regioni sono nulla più che di sussistenza».
- L’Occidente ha scoperto la crisi a fine luglio scorso. E voi?
«Noi avevamo già dati allarmanti nel novembre del 2010: ad esempio ci arrivavano notizie che molti a Gibuti dovevano fare un pasto al giorno a causa della penuria di generi alimentari e dell’aumento dei prezzi. Già ad aprile scorso avevamo cominciato interventi d’emergenza in Somalia e Gibuti. Ma in Europa della crisi non parlava nessuno. Improvvisamente è stata scoperta nel pieno dell’estate, dopo l’intervento del Papa del 17 luglio. In ogni caso, la crisi somala non può essere affrontata solo dal punto di vista umanitario».
Somalia: una madre scappa con i suoi figli da un Paese piagato dalla guerra civile e dalla carestia (foto: Ansa).
- Cioè?
«Occorre anche un intervento politico per far rinascere il Paese, se no la situazione si perpetuerà per altri mille anni. La Somalia ha bisogno di riconciliazione. Occorre che la guerra finisca».
- Oggi, i cosiddetti Shabab, questi gruppi di estremisti musulmani, tengono in scacco il Governo di transizione (fatto da mulsulmani, peraltro, il Paese è totalmente islamizzato) e controllano almeno la metà della Somalia centro-meridionale. Il fondamentalismo sembra contaminare sempre di più il Paese. Che fare?
«Le rispondo con un esempio: dopo l’11 settembre gli americani vennero a raccontarmi che intendevano piazzarsi con una grande base militare a Gibuti in funzione antiterrorismo. Dissi loro che la vera lotta al terrorismo l’avremmo potuta fare noi: bastava che ci dessero i fondi equivalenti a un loro carro armato, li avremmo investiti nelle scuole e nell’educazione. Così si fa vera prevenzione».
- Qual è oggi la situazione più critica?
«Secondo me è quella intorno a Mogadiscio: ci sono 226 piccoli campi profughi sparsi tutto intorno alla capitale. E nel solo “corridoio di Afgoi”, ossia la lingua di territorio che da Mogadiscio corre verso Sud-ovest, vi sono circa 400 mila sfollati interni. In queste aree facciamo distribuzioni di viveri. Come possiamo, perché a Mogadiscio si combatte».
- Lei continua a ripetere che la popolazione non ne può più della guerra...
«Lo confermo. Credo che ci sia un 2 o 3 per cento di somali, più scaltri e senza scrupoli, che continuano a tenere in ostaggio il resto della popolazione».
Luciano Scalettari