05/07/2012
Gianni Rigoni Stern in una stalla di Suceska.
Quando nell’agosto del 2009 Gianni Rigoni Stern ha visto per la prima volta l’altopiano di Suceska, a una decina di chilometri da Srebrenica, gli è sembrato di trovarsi a casa sua, tra gli stessi monti ondulati che da sempre vede da Asiago e che suo padre Mario ha raccontato in tanti libri. C’erano però alcune differenze: i prati erano invasi dalla felce e vi pascolavano solo poche mucche smunte; fra le sparute misere case, molte erano vuote e annerite. Erano il segno più tangibile di una tragedia che fra quelle valli della Bosnia Erzegovina era iniziata nel 1992, quando le famigerate “tigri di Arkan” arrivavano dalla Serbia, trucidavano gli uomini, razziavano tutto e poi incendiavano case e stalle, ed era culminata nel 1995 con il massacro di Srebrenica, 10 mila musulmani uccisi, il più grande sterminio in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale.
Le vedove e i pochi giovani rimasti per anni hanno vissuto come profughi. Poi, piano piano, sono tornati. «Un’amica, Roberta Biagiarelli, autrice teatrale, che da tempo portava avanti progetti culturali in quei luoghi, mi ha chiesto se potevo venire lì e usare la mia esperienza trentennale di funzionario della Comunità montana per aiutare quella gente», ricorda il figlio dell’autore del Sergente della neve.
Da quel primo viaggio ne sono seguiti molti altri ed è nato un progetto ambizioso, raccontato dal documentario La transumanza della pace, girato dall’amica Biagiarelli e presentato di recente al Festival Cinemambiente di Torino. Rigoni Stern inizia a girare casa per casa per conoscere le famiglie rimaste. Scopre che coltivano e allevano solo quel tanto che basta loro alla stretta sopravvivenza. Le vedove percepiscono una pensione di 150 euro al mese, mentre i figli, a differenza dei loro padri che avevano un buon livello di scolarità, hanno a malapena fatto le elementari. Molti alloggiano in case non finite e chi ha la fortuna di avere una stalla, la mantiene in gravi condizioni igienico-sanitarie. Il primo passo è stato organizzare un ciclo di lezioni nella scuola elementare per trasformare le vedove e i loro figli in bravi allevatori, insegnando loro come liberare i campi dalla felce, concimare, svezzare, pascolare e alimentare le mucche. Molte donne percorrevano ogni giorno anche 15 chilometri a piedi lungo strade sterrate per partecipare alle lezioni, nella speranza di ricevere alla fine in dono una mucca. Il cuore del progetto di Rigoni Stern è proprio questo: ritrasformare quei prati infestati dalle erbacce e dalle mine, dove «solo lo scorso dicembre un altro agricoltore è saltato in aria», in verdi pascoli brulicanti di mucche, come lo erano stati per secoli.
Dopo aver bussato inutilmente al Governo per ottenere i fondi della Cooperazione, Rigoni Stern trova l’aiuto sperato nella Provincia di Trento, che accetta di finanziare l’acquisto di 48 manze dalla val Rendena per donarle alla gente di Suceska. Non era il primo tentativo di questo tipo, ma tutti fino a quel momento si erano rivelati un fallimento: «Una Ong olandese aveva regalato mucche troppo costose da mantenere, mentre l’Onu aveva assegnato delle bestie a patto che fossero alimentate solo con il mais, ignorando che pochissimi possedevano i trattori necessari per produrlo». Risultato: tutte le mucche erano state in breve rivendute. Con Rigoni Stern le cose sono andate in modo diverso: le manze rendene si sono adattate perfettamente al nuovo ambiente e chi le ha ricevute ha dovuto sottoscrivere un contratto con cui si impegna a non rivenderle e a non macellarle per cinque anni. Così la provincia di Trento ha finanziato l’acquisto di nuove mucche, mentre nel frattempo è nata Lalla, seguita da una trentina di vitellini.
Con il ricavato delle proiezioni del documentario La transumanza della pace, inoltre, è stato possibile acquistare due nuovi trattori. Ma molto resta ancora da fare. «Il latte in eccesso ogni due giorni viene portato con un camion in un caseificio vicino a Tuzla, a cento chilometri di distanza, e viene pagato pochissimo. Il nostro sogno è aprire un caseificio a Suceska. Un mio amico casaro si è reso disponibile ad accompagnarmi per trasmettere la sua conoscenza nel fare formaggi».
L’ostacolo più difficile da superare è però un altro. «Questa gente vive ancora proiettata nel passato. Quando per la prima volta sono entrato nelle loro case, sono rimasto colpito dalla quantità di foto di persone care che erano state uccise. Ho conosciuto una vedova che ha perso il marito e tre figli. È difficile guardare al futuro quando ogni giorno puoi vedere l’uomo che ha contribuito alla cattura di un tuo caro girare liberamente per il Paese. Io cerco di aiutare queste famiglie come posso, ma solo quando riusciranno a sanare le ferite che le legano al passato, potranno tornare a vivere una vita normale. Ci vorrà ancora molto tempo».
Eugenio Arcidiacono