30/03/2011
Il premier turco Recep Tayyip Erdogan sotto l'immagine di Kemal Ataturk.
Sugli sviluppi futuri delle rivolte arabe è difficile fare previsioni, una cosa però è certa: nel Maghreb e nel Medio Oriente la Turchia sta giocando un ruolo di primo piano. In Libia, ha appoggiato la missione Nato ma escluso categoricamente che i turchi sparino anche un solo colpo contro i libici, proponendosi come intermediario tra Gheddafi e il Consiglio dei ribelli per giungere al cessate il fuoco nel Paese nordafricano. Quanto alla Siria - con quale la Turchia condivide 800 chilometri di confine e molti scambi economici e ha da poco abolito la politica dei visti d'ingresso - il premier turco Erdogan preme sul presidente siriano Bashar Al Assad perché conceda le riforme invocate dai manifestanti e interrompa lo stato di emergenza se vuole evitare che la rivolta prenda il sopravvento. La Turchia, dunque, rilancia la sua immagine di potenza regionale e mediatrice tra Occidente e mondo arabo. Ne parliamo con Valeria Talbot, ricercatrice del programma Mediterraneo e Medio Oriente dell'Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) di Milano, dove ha anche curato il progetto di ricerca Turchia.
Il sistema turco, che coniuga i valori islamici e la democrazia sotto tutela del potere militare, è stato preso come modello di sviluppo democratico da alcuni Paesi arabi, come Tunisia ed Egitto. Crede che il modello turco sia esportabile nel mondo arabo?
«Sicuramente è positivo che Tunisia ed Egitto abbiano scelto la Turchia come modello. Che poi in questi Paesi possa avvenire il cambiamento turco è difficile: la Turchia di oggi è il risultato di un processo iniziato nel 1923 che ha avuto un percorso non facile, spesso ostacolato. Tunisia ed Egitto hanno storie molto diverse. E' difficile che possano diventare in poco tempo quello che è oggi la Turchia. Ma certamente il sistema turco può essere un punto di riferimento per il mondo arabo. Nell'ultimo decennio la Turchia ha avviato una serie di riforme importanti inc ampo economico e politico, nel senso di una apertura democratica, grazie anche all'avvio del processo per l'integrazione nell'Unione europea, che ha stimolato le riforme».
Il ruolo giocato dall Turchia nella crisi del mondo arabo può poi avere un effetto positivo sul processo di integrazione europea del Paese?
«Sì, penso che l'Unione europea debba tenere in considerazione il cambiamento di percezione verso Ankara da parte del mondo arabo rispetto a qualche anno fa. Dopo la guerra in Irak erano stati gli Stati Uniti a proporre il modello turco, ma gli Stati arabi non l'avevano accettato. Il fatto che oggi siano esponenti politici e media arabi, spontaneamente e non per imposizione esterna, a guardare alla Turchia è un elemento importante di novità. A favore di questo cambiamento di percezione gioca la stabilità politica turca da quando l'Akp - il partito islamico-conservatore di Erdogan - è al potere (cioè dal 2003), la crescita economica notevole, il ruolo autonomo assunto in politica estera a livello regionale, svincolato dagli interessi occidentali e in particolare statunitensi».
Il rapporto della Turchia con l'Europa non è semplice. Pensiamo alla recente visita in Germania del premier Erdogan che, rivolgendosi agli immigrati turchi - 2 milioni e mezzo circa - ha detto sì all'integrazione ma no all'assimilazione culturale nel Paese ospitante, sostenendo che i bambini turchi devono prima imparare il turco poi il tedesco...
«Il comportamento turco è anche una reazione all'atteggiamento dell'Europa verso la Turchia in merito al tema dell'adesione all'Ue. La percezione è che verso la Turchia si applichi la politica dei due pesi e due misure. Germania e Francia si oppongono apertamente all'ingresso nella Ue e fin dall'inizio sono stati messi dei paletti al processo dell'integrazione europea. Tutto questo ha portato a una disaffezione dei turchi verso l'obiettivo europeo, sulla quale poi ovviamente incide anche la retorica di Erdogan».
L'integrazione europea interessa davvero ai cittadini turchi, alla gente comune?
«Quando i negoziati per l'adesione sono iniziati, nel 2005, i sondaggi dicevano che c'era molto entusiamo nella gente comune. Poi, con gli anni, questo interesse è andato scemando. Ma bisogna fare una distinzione fra i turchi di Istanbul e quelli che vivono in Anatolia e nelle province orientali, molto lontani dal contesto occidentale e dall'Europa».
Uno dei motivi di diffidenza verso la Turchia è anche il suo rapporto con l'Iran, che Ankara ci tiene molto a coltivare. Perché?
«Prima di tutto per motivi economici ed energetici. La Turchia importa buona parte delle sue risorse energetiche dall'Iran, che rappresenta una valida alternativa alla dipendenza dalla Russia. La presenza iraniana in Turchia a livello di turisti e di business è consistente. Inoltre, la Turchia ha tutto l'interesse che l'Iran sviluppi il nucleare a livello esclusivamente civile».
Il 12 giugno i turchi vanno alle urne per le elezioni legislative. Cosa prevede?
«Erdogan certamente vincerà. Il consenso che vanta tra la gente è sempre molto ampio. Alle elezioni del 2007 l'Akp ha avuto il 47 per cento delle preferenze. Bisogna però capire se raggiungerà una maggioranza tale da formare di nuovo un governo monocolore, come è stato negli ultimi otto anni. L'opposizione non ha i numeri per poter minare l'Akp. Il partito islamico è quello che ha dato avvio ai negoziati per l'integrazione europea e fino a oggi ha mostrato più degli altri l'inclinazione verso l'Europa. L'Akp si definisce musulmano-democratico sulla scia dei partiti cristiano-democratici europei ed è riuscito a inglobare nella dinamica politica le istanze religiose della società turca. La Turchia non ha mai conosciuto il pericolo dello scivolamento verso il fondamentalismo islamico».
Un pericolo che, invece, molti ora temono per i Paesi arabi in rivolta. Cosa ne pensa?
«In questo momento nella primavera araba non vedo alcuna deriva fondamentalista. Le istanze e le richieste sono altre: libertà, apertura e diritti fondamentali per popolazioni che per decenni sono state soffocate sotto regimi autoritari. Nelle rivolte arabe ci sono istanze politiche e non religiose. La paura del fondamentalismo al momento non ha motivo di esistere».
Giulia Cerqueti