19/04/2013
La contestazione, al limite della rivolta, di molti cittadini sparsi un po’ ovunque, chi davanti a Montecitorio, chi nell’Emilia “rossa”, chi a Udine, chi a Trieste, è il segno di un profondo cambiamento dei cittadini italiani nei confronti del rito dell’elezione del presidente della Repubblica. S’era mai visto, prima del caso-Marini, così tanta gente contestare, tifare, consigliare accoratamente i nostri eletti perché il voto convergesse su questo e non su quello? Mai. E allora, che sta accadendo?
Succede questo: fino all’elezione di Giorgio Napolitano compresa, l’Italia ha sempre vissuto con l’intima convinzione di essere in una Repubblica parlamentare. Noi cittadini eleggiamo i nostri rappresentanti e loro, delegati dal nostro voto, risolvono la questione presidenziale all’interno del Palazzo, secondo le logiche del momento politico, tutte, nessuna esclusa, di nostra fiducia. Sostanzialmente quella delega che chiamiamo voto era condivisa al punto che la fiducia in chi nominava il presidente della Repubblica era non solo certa, ma vissuta anche come rassicurante. Non siamo noi a dover scegliere, siete voi. Fatelo per noi, ci fidiamo di voi.
Stavolta, le cose sono cambiate radicalmente. I motivi sono molteplici: la delusione per la classe politica, per esempio, fa sì che la fiducia sia precipitata a livelli infimi. Inoltre, il discredito si unisce a quei discorsi in chiave di repubblica presidenziale già sentiti nel corso degli anni. Se a queste motivazioni - più di pancia che di testa - aggiungiamo la nuova presenza del Movimento 5 Stelle, terremotata in Parlamento, nel “Parlamento del nostro scontento”, con le ventilate novità grilline che sembrerebbero pronte a cambiare l’universo mondo, ecco che l’idea di poter essere noi, il popolo sovrano, a scegliere, o a indirizzare le scelte dei partiti si fa strada in modo evidente, egualmente spontaneo quanto massiccio.
Va aggiunto, a tutto ciò, anche il comportamento psicologico del Pd. Per la prima volta nella storia repubblicana, il partito più grande della sinistra si trova a dover “dirigere” i lavori nella scelta del prossimo presidente della Repubblica. È il partito di maggioranza relativa, infatti, che propone nomi al resto del Parlamento. Una posizione che la vecchia Dc aveva saputo metabolizzare con sapienza, forte della sua naturale propensione verso l’arte del compromesso. Non a caso, la posizione del partito di maggioranza relativa è sempre stata costellata da insuccessi clamorosi nella scelta del capo dello Stato.
Mai la Dc, infatti, è riuscita a eleggere il suo primo candidato ufficiale. Certo, ci sono stati presidenti democristiani, ma mai quei presidenti erano la prima scelta, quella che inizialmente il partito democristiano aveva pensato di proporre. Tanto che, oltre ai fortunati eletti, sono passati alla storia anche quelli che in modo sbrigativo e rozzo, ma terribilmente efficace, vengono chiamati “trombati”.
Da Merzagora a Fanfani, dallo stesso Leone a Forlani, la Dc ha subìto batoste storiche prima di vedere insediato al Colle un candidato gradito. Ma i suoi elettori mai hanno contestato quelle scelte, anche quando i motivi per farlo di certo non mancavano. Oggi, di contro, il Pd sembra smarrito, confuso e infelice, perché è alla sua “prima volta” da partito di maggioranza relativa di fronte alla scelta del presidente della Repubblica. Così, sulla proposta-Marini (sciagurata, certo, ma pur sempre legittima), il partito s’è spaccato clamorosamente. La Dc non si spaccava perché sapeva “ricucire” prima ancora di arrivare allo strappo.
Gli elettori del Pd hanno contestato con vigore, e proprio in Emilia, non per caso, hanno dato “l’assalto ai forni”, nel senso che le sedi di partito sono state educatamente ma accoratamente attaccate: ripensateci, non fatelo, non vi votiamo per questo, eccetera. Qualcuno (non pochissimi, a dire il vero) ha anche dato fuoco alla propria tessera. E davanti a Montecitorio, non c’è parlamentare di alcun partito che non venga fermato, scongiurato, richiamato, o anche contestato. Inimmaginabile solo sette anni fa. Ma oggi non lo è più.
È come, in sostanza, se il Palazzo fosse fermo alla Repubblica parlamentare e ne seguisse gli ultimi penosi respiri mentre fuori il popolo ragionasse già in termini di Repubblica presidenziale: votate per Rodotà, ve lo chiediamo a mani giunte… Ora, senza nulla togliere al legittimo tifo per questo o quello, resta la domanda: i partiti devono assecondare i desiderata del popolo “sovrano” o debbono continuare per la loro antica strada? E, dopo, soprattutto, che faranno? Prenderanno atto che oggi l’Italia chiede a gran voce di essere protagonista diretta in queste scelte?
Se sì, i partiti dovranno inevitabilmente mettere mano alla Costituzione, per rimodellarla. Confermando che a fronte di un’Italia ferma, immobile e immobilista, ce n’è una che si muove, eccome, verso nuove forme di democrazia. La nave in qualche modo va, ora bisogna trovare il timoniere.
Manuel Gandin