21/12/2012
foto Corbis
Alfredo (nome di fantasia) si giustifica così: «In fondo non credo veramente di essere una persona che possa essere definita “violenta”. In fondo quella sera, quando abbiamo litigato, lo schiaffo che le ho dato non era così forte». Marco tenta di minimizzare: «Parliamoci chiaro, io sono un esperto di boxe e se avessi voluto colpirla per punirla seriamente, il pugno che le ho tirato non l'avrebbe certo fatta rialzare subito». Francesco, artigiano 42enne di Modena, si ferma invece a riflettere: «L'insegnante di mio figlio di 9 anni mi ha chiesto se in casa ci fosse qualche problema perché il bambino stava andando male a scuola, era molto distratto e insolitamente aggressivo con i compagni. Allora ho provato a pensare a ciò che succede in casa nostra. Io lavoro un sacco di ore, mia moglie anche e tra noi le cose non funzionano più, a volte lei mi esaspera, litighiamo, e mentre urlo, le do una sberla, o la spintono. Magari può essere che a volte cada in terra ma poi tutto finisce lì e facciamo la pace».
«Ancora una volta», racconta Mauro, «dopo l'ennesimo litigio, la mia mano non si è fermata così come non si erano fermate le parole e le spinte. Poi le botte, le urla e il sangue. Già, il sangue. Quella mattina ho capito. Ho capito che me la stavo raccontando, cercando sempre delle giustificazioni. Così sono venuto da voi». La cronaca li chiama “mostri”. Per gli esperti del centro Liberiamoci dalla violenza di Modena sono solo persone che hanno scelto l'aggressività come scorciatoia per risolvere i problemi personali e di coppia. Una scorciatoia che, numeri alla mano, si è trasformata in emergenza: dall’inizio dell’anno sono più di cento le donne uccise dal marito o compagno. Una ogni due giorni. Nel 2011 furono in totale 137, una vittima ogni 72 ore.
Negli ultimi tre anni i femminicidi in Italia sono aumentati del 10%. È l'incremento maggiore rispetto agli altri Paesi europei, secondo l'associazione Non siamo complici. Sull'onda emotiva della cronaca molti, a cominciare dai politici, chiedono di inasprire le pene, già durissime, per gli assassini. Scorciatoia chiama scorciatoia, insomma. E non risolve nulla. Resta la strada, difficile ma sicuramente più utile, della prevenzione.
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Prevenzione: è quello che da quasi un anno stanno tentando di fare gli esperti del Consultorio familiare di via don Minzoni 121 a Modena, dove ha sede il centro Liberiamoci dalla violenza (Ldv) che accoglie uomini violenti. «È il primo sportello pubblico, realizzato grazie alla collaborazione tra l'Ausl di Modena e la Regione Emilia Romagna, che ha avviato un esperimento del genere in Italia», spiega la coordinatrice Monica Dotti. È aperto tutti i venerdì dalle 13,30 alle 17,30, e si può contattare al numero di telefono 366.57.11.079 o scrivendo una mail all'indirizzo: ldv@ausl.mo.it
Vi lavorano tre psicologi: Giorgio Penuti, Alessandro De Rosa e Paolo De Pascalis. Tutti uomini. «Parlare dei propri gesti violenti con una donna», spiega Dotti, «avrebbe avuto un effetto inibitorio. Per questo aspetto, ma non solo, ci siamo ispirati al centro di Oslo Alternative to violence, dove lavorano solo psicologi maschi». Da quando ha aperto, nel dicembre 2011, a ottobre scorso, lo sportello modenese è stato contattato da una novantina di persone, tra cui undici donne che hanno chiesto informazioni per inviare il proprio partner. Attualmente sono in trattamento 18 uomini. Tre sono stranieri. Altri quattro sono in lista d'attesa. Si tratta di operai, artigiani, piccoli imprenditori, impiegati. C'è anche un pensionato. La fascia d'età più rappresentata va dai 35 ai 50 anni. Il 90% degli uomini in cura ha dei figli.
«L'esperienza coniugale si può interrompere», spiega Dotti, «ma genitori si resta tutta la vita. Per questo è importante che i figli sappiano che il loro papà sta cercando di cambiare e ha intrapreso un percorso di cura». Si comincia da un colloquio preliminare, poi si decide la terapia. Agli uomini violenti viene fatto firmare una protocollo di consenso per poter contattare la partner e comunicarle che ha iniziato un trattamento. «L'obiettivo è di mettere in sicurezza la famiglia», dichiara Dotti. Alcune persone che si sono rivolti al centro non hanno mai alzato un dito nei confronti della partner. Chiedono solo aiuto per gestire la propria ira e aggressività, che all'inizio magari si sfoga sugli oggetti.
In gravidanza i lrischio violenza aumenta. Giorgio Penuti, psicologo, psicoterapeuta e mediatore familiare, è uno dei tre esperti che lavora nel centro modenese. «Le persone che vengono da noi sono quasi tutte in fase di separazione o pre-separazione», spiega. «Un uomo è venuto perché aveva preso a schiaffi la moglie incinta». Un dato su cui riflettere. «Durante il periodo di gravidanza il rischio per la donna di subire violenza aumenta notevolmente», fa notare Penuti, «perché si tratta di una fase di transizione, di passaggio, in cui il nucleo familiare è destinato ad allargarsi e diventare più complesso. La partner comincia a concentrarsi di più sul figlio in arrivo e l'uomo, sentendosi messo da parte o comunque immaginando che lo sarà in futuro, prorompe in gesti di aggressività e rabbia, dettati magari dal risentimento».
Anche la gelosia gioca un ruolo fondamentale. «In molti casi», afferma l'esperto, «questo sentimento può tradursi in fenomeni di sopraffazione o nel tentativo di controllo ferreo della partner in tutti i suoi spostamenti e azioni. Alla base di tutto, c'è un difetto di controllo delle proprie emozioni ma anche la volontà di affermare il proprio potere sulla compagna».
Se le donne sono le vittime dirette della violenza, i figli lo sono indirettamente. Ma con conseguenze ugualmente devastanti. «I bambini che assistono a questi episodi subiscono danni pesantissimi che si traducono in paura e disorientamento quando diventeranno più grandi», spiega Penuti.
Vittime di ieri, mostri di oggi. C'è un altro aspetto importante in questo fenomeno, a volte poco sottolineato, se non taciuto. Spesso i “mostri” di oggi sono stati le vittime di ieri. La violenza genera altra violenza, lascia tracce che possono riemergere anche a distanza di molti anni. «I dati», spiega Penuti, «parlano chiaro. Gli uomini che usano violenza nei confronti delle donne, nel 60% dei casi, a loro volta, hanno subito violenza da piccoli o assistito in famiglia a episodi del genere». Al centro si presentano tanti soggetti che hanno vissuto questo tipo d'esperienza. Come quella persona che da bambino, a fronte di qualche marachella, veniva sistematicamente picchiato con la cintola dal padre. «Era quasi un rito», racconta Penuti. «Il bimbo, ovviamente, si sentiva offeso, umiliato e impotente».
Una cosa è certa: è difficile trarre conclusioni generali sulle cause di un fenomeno così complesso. C'è la difficoltà da parte dell'uomo di individuare e controllare la propria rabbia, quella di mettersi nei panni della propria compagna o di tenere in piedi un rapporto. Guai però a semplificare. «La violenza non è mai da intendersi come uno sfogo», chiarisce Penuti. «Questo è un luogo comune. Ogni atto violento è il tentativo di affermare il proprio potere sulla persona che ci è accanto attraverso la minaccia, il disprezzo e l'umiliazione».
Antonio Sanfrancesco