23/01/2012
Un gruppo di donne indiane (foto: Ansa).
Non c'è ancora posto per le vedove nella società indù. Il film Water, della regista indo-canadese Deepa Metha, uscito nel 2005, che denunciava l'atroce condizione delle vedove indiane, non è bastato a scuotere le coscienze.
Rinchiuse in ospizi simili a prigioni, spesso costrette alla prostituzione per sopravvivere, o comunque condannate all'inerzia e all'isolamento, una volta rimaste senza marito, indipendentemente dall'età in cui le colpisce il lutto, le donne appartenenti alla fede indù non hanno altra possibilita che attendere in silenzio la propria morte.
Il film, premiato in numerosi festival internazionali, è stato girato in Sri Lanka, dopo che il set di Varanasi aveva subito ripetute minacce e violente intrusioni da parte dei movimenti ortodossi indù. E la censura indiana ha impiegato più di due anni per autorizzare la circolazione della pellicola nelle sale.
Ma, a distanza di anni, sembra che la situazione non sia affatto migliorata. Tra i rifiuti di un ospizio governativo per vedove, nello stato dell'Uttar Pradesh, sono stati rinvenuti resti di cadaveri fatti a pezzi. Per evitare le spese funerarie, che per la fede indù prevedono la cremazione del corpo, sembra che la direzione dell'ospizio consegnasse i cadaveri agli spazzini, con l'incarico di tagliarli a pezzi e gettarli nella spazzatura.
Ma la condanna delle vedove indiane è una storia antica. Risale infatti al rito del “sati”, che prevedeva l'immolazione “volontaria” della vedova sulla pira funeraria del defunto consorte. Secondo la tradizione indù, la moglie doveva seguire il marito nell'altro mondo per ribadire l'eternità del vincolo matrimoniale, che si crede perduri per sette generazioni. Il sacrificio del “sati” avrebbe assicurato fortuna e prosperità alle famiglie di entrambi i coniugi.
Scortata dai parenti, spesso drogata e sotto la minaccia di armi, la vedova non aveva altra scelta che obbedire alla volontà della famiglia, anche perchè l'alternativa sarebbe stata peggiore della morte immediata. Il rito era accompagnato dal rullo forsennato dei tamburi, anche per coprire le urla strazianti delle sventurate. Nonostante una serie di leggi varate dal Governo indiano per prevenire l'odioso rito, soprattutto nelle zone rurali, il “sati” e' ancora occasionalmente praticato. Tuttavia, l'alternativa della reclusione obbligatoria a vita, anche se meno cruenta, resta una pratica infamante e disumana, e una delle pagine più nere che la moderna democrazia indiana dovrebbe rimuovere al piu' presto dalla propria storia.
Marta Franceschini