19/03/2011
Satomi Ono
Sono passati otto giorni dal venerdì del terremoto. Da quel momento la terra ha continuato a tremare, scosse su scosse d’assestamento interrompono la giornata e non se ne vede la fine. Persino mentre me ne sto a scrivere sul mio Pc sento un tremolio sotto i piedi. Ma alcune scosse hanno superato i sei gradi di magnitudo scuotendo le pareti. Mi sento come se dovessi scivolare ad ogni minuto. Tokyo è come in preda a un formicolio inquietante. E non riesco ad abituarmi. La radio ha appena annunciato che tracce di radioattività sono presenti nell’acqua di Tokyo. Guardo il rubinetto della mia cucina e ho come un moto di paura, vorrei svegliarmi da un incubo. Nel mio Paese domina lo smarrimento, anche se non ci arrenderemo mai. Milioni di persone intorno a me continuano a lavorare. Altre sono partite per le zone disastrate dello tsunami per aiutare i sopravvissuti e confortarli. Tutti sentiamo che l'unico modo per vivere e continuare a fare le cose che facevamo. Continuiamo a lavorare dieci, dodici ore al giorno. Ho scoperto che scrivere mi aiuta a scaricare la tensione. Per questo, e per aiutare i miei amici italiani ed europei a comprendere meglio quello che stiamo vivendo a Tokyo, ho scritto per "Famiglia Cristiana" questa sorta di diario che terrò aggiornato fino a quando finirà quest’incubo.
Venerdì 11 marzo. La scossa ha colpito il Giappone alle 14.46. Io ero nella sede del giornale. In questo periodo mi occupo di “recruiting”, ovvero di selezionare stagisti e futuri dipendenti per il quotidiano per il quale lavoro, che ha circa 2 mila giornalisti. Di questi solo il 10 per cento è di sesso femminile. Avevo appena accolto due ospiti alla reception. Li stavo portando al 14esimo piano dove c'è il mio ufficio. Sono stata fortunata: la scossa ha colpito appena sono uscita dall’ascensore. Altrimenti sarei rimasta bloccata in ascensore per chissà quanto tempo.
Ho avvertito come un senso di nausea e non riuscivo a capire perché, come se avessi un capogiro. Poi ho capito che la terra si muoveva sotto i miei piedi. Mi sono ricordata dello Tsunami in Nuova Zelanda. Ho anche pensato a Miyagi, che era stata colpita da un grave terremoto il 9 marzo dell'anno scorso. Abbiamo acceso la tv per capire le prime notizie: un terremoto della magnitudo 8,8 ha colpito la costa Nord del Giappone, a circa 300 chilometri da Tokyo. In Giappone è la più alta mai registrata. Una cosa mai vista anche per noi giapponesi, che ai terremoti siamo abituati.
Le scosse sono diventate sempre più forti, non finivano mai. Così mi sono seduta su una poltrona, ma ho dovuto tenermi attaccata al tavolo. Le sedie a rotelle si muovevano su e giù in un tale modo che pareva di essere su una nave in tempesta. Uno degli ospiti era seduto di fronte al muro, dove era appeso un quadro, che si muoveva furiosamente. Uno dei miei due ospiti ha detto: è come l'11 settembre, deve essere stato così l'attacco alle Torri Gemelle.
Nelle ore successive al terremoto non sapevamo nulla del disastro nucleare di Fukushima. In riunione di redazione abbiamo discusso della catastrofe provocata dallo Tsunami ma non di eventuali danni a centrali. La sera dell’11 marzo, il giorno del terremoto, il mio giornale è uscito con un’edizione speciale di quattro pagine.
Uno degli articoli diceva: "Secondo l’Agenzia per la sicurezza nucleare non risultano danni ai reattori. Tutti gli impianti nucleari dell’area hanno registrato la scossa e si sono fermati automaticamente. Nessuna perdita radioattiva".
Nel 2006 ho avuto la possibilità di visitare l’impianto di Niigata, il più grande del Giappone. Ricordo che il portavoce della Tokyo Electric Company ci spiegò che era al sicuro dal più grande Tsunami del passato. Anche nel sito ufficiale dell’impianto veniva spiegato che i tecnici avevano simulato il più grande tsunamiprevisto dalla teoria di sismologia e che dopo aver costruito l’impianto avevano provato a colpirlo con un muro d’acqua sparato dagli idranti per simulare uno tsunami. Nel 2007 una scossa di 6.8 colpì Niigata. La maggior parte dei giapponesi ricorda questo terremoto molto bene perché ci fu un incendio al trasformatore. Ma tutti i reattori nucleari si fermarono automaticamente. Un esperto mi disse che voleva elogiare l’ingegnoso piano di sicurezza dell’impianto. Queste storie sono ancora nella mia mente. Fino a ieri non ero preoccupata per gli impianti nucleari. Oggi occupano la mia mente come un incubo.
Sabato 12 marzo ho chiamato mia madre che vive nella prefettura di Chiba, a vicino al prefettura di Tokyo. Mi disse che le stanze erano state messe a soqquadro dal terremoto, ma che non c’erano state fughe di gas e acqua o danni alla rete elettrica.
Aveva provato a contattare dei nostri parenti che vivevano a Fukushima. Poi le dissi che domenica sarei andata ad aiutarli a rimettere le cose a posto dopo aver finito di lavorare. Dovevo terminare l’inchiesta che non avevo interrotto il giorno del terremoto. Dovevo farlo nel mio piccolo appartamento nel centro di Tokyo perché mia madre ha 73 anni e non ha la linea Internet. Non ha nemmeno un cellulare.
Dopo aver chiamato mia madre ho controllato le news. Mi è stato di sollievo apprendere che il fuoco che dominava con una nuvola nera sopra Tokyo era stato spento. Poi, sulla prima pagina dell’edizione del mattino, ho trovato una frase: “Ci sono difficoltà a spegnere il reattore di Fukushima”. L’articolo spiegava che il sistema di raffreddamento del nocciolo non funzionava per mancanza di elettricità. A pagina cinque, un titolo recitava: “La situazione va oltre le previsioni”. Il governo aveva già ordinato l’evacuazione ai residenti nel raggio di tre chilometri dall’impianto nucleare Daiichi di Fukushima alle 9:23 dell’11 marzo. Come tutti a Tokyo, in quel momento pensavo ai miei colleghi, ai miei studenti stagisti, alla mia famiglia, ai miei amici. Ma non all’ordine di evacuazione. Mai avrei immaginato che Fukushima ci avrebbe raggiunto attraverso le tubature della città, uscendo direttamente dai rubinetti delle nostre cucine o dei nostri bagni.
Non riuscivo a concentrarmi per continuare il mio articolo. Decisi di andare al supermercato a piedi. C’erano un sacco di verdure, frutta, pesce, carne e via dicendo. Ho preso delle arance, dei broccoli, formaggio e yogurt per il mio pranzo. “Oh, l’acqua!”, ho pensato. I danni alla centrale di Fukushima, che fornisce energia per tutta Tokyo e la sua cintura metropolitana, avevano compromesso la rete elettrica, la quale a sua volta aveva interrotto le pompe che portavano acqua negli appartamenti, compreso il mio. Ho quindi cercato dell’acqua in bottiglia. Ma l’acqua in bottiglia non c’era. Era esaurita. Anche i “cup noodles”, gli spaghetti confezionati giapponesi, erano esauriti. Vanno bene per le emergenze. Se ci versi sopra acqua calda e aspetti per 3 minuti, sono pronti da consumare. Personalmente preferisco i biscotti. C’erano tonnellate di biscotti e dolcetti negli scaffali. Ho comprato tre scatole di biscotti, quattro scatole di peanuts and almonds e un a bottiglia di tè oltre al mio pasto. La mia razione di guerra.
Tornata nella mia stanza, ho cominciato a infilare le mie cose nel mio zaino. Per andare da mia madre ci vogliono normalmente due ore di treno. Venerdì il terremoto aveva paralizzato i trasporti dell’area. Avrei potuto raggiungere mia madre anche a piedi, all’occorrenza. Così ho messo nello zaino i peanuts, la bottiglia di tè, i cerotti, la torcia con batterie di emergenza, la radio portatile e il cellulare.
Mentre sistemavo lo zaino, ascoltavo le notizie della radio. La radio diceva “Il governo ha deciso di espandere l’area di evacuazione da un raggio di tre a dieci chilometri. La Compagnia Elettrica di Tokyo ha dichiarato che raffredderanno in fretta il reattore”.
Dieci chilometri. La notizia mi ha agghiacciato. Ho controllato via Internet quanto lontano i miei parenti vivono dal reattore nucleare. Non così vicino. Il radiogiornale continuava: “Quando non siete in casa, mettete la mascherina o asciugamani bagnate sulla faccia, indossate un cappello. Non esponete la vostra pelle all’aria”. Potevamo sapere se la prefettura di Chiba è un posto sicuro? Riflettei tra me e me. Non ci sono dati che attestino che Chiba è in pericolo. Ma d’altra parte non ci sono nemmeno prove che sia sicura. Ho messo nello zaino anche la maschera e un 'asciugamano.
In quel momento il mio cellulare ha prodotto un breve squillo: è il segnale dell’arrivo di un’e-mail. Uno dei miei parenti mi aveva forwardato un’e-mail che recitava: “Le informazioni dal ministero della Salute, lavoro e Welfare: l’incendio della raffineria sta diffondendo sostanze tossiche nell’aria. Quando piove, fate attenzione a non esporre la vostra pelle alla pioggia”. Oh, mio Dio! Ho messo un ombrello portatile e un impermeabile nella sacca.
Ho pensato che dovevo stare calma. La sera il presidente della nostra Azienda editoriale aveva mandato un’e-mail a tutti i dipendenti. Ci informava che il collega giornalista che stazionava nella città dove era scoppiato il grande incendio era salvo e stava bene. “La più bella notizia del giorno”, ho esclamato ad alta voce nella mia stanza. Tuttavia avevo difficoltà a chiamare i miei amici al telefono. Più facile attraverso Internet. Forse è un segno dei tempi. Ho cominciato a forwardare il messaggio che mi era stato inviato dal mio parente a tutti quelli che conoscevo. La radio intanto continuava a diffondere notizie nella mia stanza. La tenevo accesa da mattina a sera. Il notiziario sintetizzava la conferenza stampa del sottosegretario del governo Edano. Edano, con voce tranquilla, ammoniva: “Ci sono false informazioni diffuse dalla Rete Internet. Vi prego di ascoltare solo noi attentamente. Non fatevi fuorviare da false informazioni”. Ho capito subito che Edano si riferiva esattamente all’e-mail che avevo appena ricevuto e reindirizzato ai miei amici. Che errore madornale avevo commesso! Avevo spaventato i miei amici con un’e-mail di false informazioni! Ho mandato un messaggio a tutti di scuse, aggiungendo di non fidarsi della mail.
Ho controllato via Internet la nostra edizione serale di 12 pagine (di solito ne ha 20). Il titolo principale recitava: “La Costa di Nord Est è distrutta”. Un altro diceva: “Rikuzentakada, Soma, Città sommerse”. Non una parte della città, ma un’intera città era sott’acqua. Mi sentivo la gola strozzata mentre leggevo l’articolo.
Ho cominciato a cucinare per la cena. Continuavo a dirmi che era importante fare le solite cose per calmarsi, come se fosse un giorno come tanti. Ho cucinato patate, funghi e tofu con salsa di fagioli. Non sentivo che sapore avessero, se erano buoni o no. Tentavo solo di concentrarmi per masticare quelle cose e dimenticarmi del resto, dando un senso alla cena.
Domenica 14 marzo. C’erano più di diecimila persone scomparse, diceva la televisione. C’erano scosse su scosse di assestamento. La radio spesso interrompeva alzando il volume: “Flash Urgente sul Terremoto. Sta per arrivare una nuova grande scossa. Mettetevi al riparo. Non c’è molto tempo. Affrettatevi a trovare riparo”. Il mio cellulare, come se avesse sentito il notiziario, emise uno squillo altissimo anche se a mezzanotte avevo messo il silenziatore. La radio ci avvertiva anche di possibili black out.
Quello che sto vivendo in queste ore è totalmente differente da quello che ho provato nel 1995. Allora un grande terremoto di 7.3 gradi di magnitudo colpì Kobe, in un’area lontana 500 chilometri da Tokyo. Il sisma fece 6 mila vittime. Fu una cosa orribile: molte vittime perirono arse vive negli incendi. Noi cittadini di Tokyo abbiamo condiviso il dolore e la paura con la gente di Kobe. Ma a Tokyo non vivevamo l’incertezza, la paura e il senso di smarrimento che viviamo oggi.
La nostra edizione serale riportava gli aiuti delle varie missioni partite da Stati Uniti, Nuova Zelanda, Corea e Unione europea alla volta del Giappone. Il mio cuore era pieno di gioia. Non si può capire se non si vive l’angoscia di un terremoto. Quando il Giappone mandava aiuti all’estero, non capivo quanto la cosa potesse incoraggiare le popolazioni e i sopravvissuti. Gli aiuti coreani meritano un discorso speciale.
Durante la Seconda Guerra Mondiale il Giappone aveva colonizzato la penisola coreana. Alle scuole elementari io non avevo appreso abbastanza di quel che avevamo fatto alla gente in Asia durante la guerra sebbene avevo appreso di Hiroshima e Nagasaki. Nel 1994, quando chiesi a uno dei ministri in una conferenza stampa come avrebbe sintetizzato la responsabilità giapponese verso la Seconda Guerra Mondiale, egli rispose: “Il Giappone non aveva intenzione di invadere i Paesi asiatici. Non possiamo sapere se il Giappone è l’Unico Paese da condannare per questo”. Il ministro dovette presto dimettersi perché i Paesi asiatici protestarono apertamente e formalmente per le sue dichiarazioni. (1- continua)
Satomi Ono (traduzione dall'inglese di Francesco Anfossi)