24/10/2011
La settima coppa del mondo di rugby è stata vinta dalla squadra della nazione padrona di casa, la Nuova Zelanda, vasto spopolato Paese di 4 milioni e mezzo di abitanti. I decisamente mitici All Blacks vinsero la prima edizione nel 1987, spartendo l’organizzazione con l’Australia, per il bis hanno dovuto aspettare quasi un quarto di secolo, pur essendo senza dubbio i rugbysti più forti del pianeta. Come allora la finale è stata disputata contro la Francia, che allora perse 29 a 9, stavolta è stata sconfitta di un solo punto, 7 a 8. La Francia è acrobaticamente arrivata alla finale nonostante due sconfitte contro Tonga (14 a 19) e ancora Nuova Zelanda (37 a 17). Per il terzo posto l’Australia ha battuto il Galles, quattro gatti di abitanti ma Nazionale di rugby splendida, sconfitta di un punto dalla Francia in semifinale (9 a 8), di tre dall’Australia per la medaglia di bronzo (21 a 18).
Le squadre in lizza erano venti, fra esse l’Italia fermata prima dei
quarti. Le quarantotto partite hanno avuto luogo dal 9 settembre al 23
ottobre: nel rugby durissimo ci vogliono tempi di recupero lunghi. La
finale è stata un favoloso spettacolo di sport. Il finale della finale,
con la Francia che, rinata, fiutava il miracolo e la Nuova Zelanda che
temeva una sorta di maledizione, è stato intensissimo intanto che
lealissimo: placcaggi, mischie, corse, scontri spaventosi e intanto
onesti, aperti, e la decisone dai piedi, su calci piazzati, più che
dalle mani.
Questa partita dovrebbe essere proposta nelle nostre scuole. Alla fine,
nello stadio di Auckland, piangevano tutti, di gioia o di delusione, e
tutti si abbracciavano. Mai visto così tanto sport di squadra altamente
didattico, splendidamente agonistico, onestamente combattuto,
concentrato in così poco tempo.
La definizione del rugby come sport da delinquenti giocato da
gentiluomini, in antitesi al football sport da gentiluomini giocato da
delinquenti è restrittiva, non basta a dare il giusto al rugby.
Ecco, pensiamo di dover chiedere e chiederci come mai in Italia il rugby
gode al massimo di fiammate d’interesse legate a un risultato, o di una
moda “leggera”, che si guarda bene dal cercare di togliere spazi al
football. La Francia e l’Inghilterra, la Scozia e il Galles e l’Irlanda
(che nel rugby è miracolosamente una sola) più o meno vivono le nostre
pulsioni calcistiche, ma hanno un grande rugby, per grandi pubblici. E
traggono dal rugby tutto il meglio quanto a sacralità d’impegno, acre ma
onesto senso della lotta, capacità di chiudere brindando tutti insieme
anche la contesa più feroce sul terreno (il famoso “terzo tempo che il
football nostro ha cercato di far nascere sui suoi campi, con recite
fasulle ed esiti abbastanza ridicoli).
In Italia ci sono appena due città, anzi adesso una città e mezza, che
fanno più rugby che calcio: Rovigo e L’Aquila. Dove anche i bambini
sanno che lo sport della palla ovale è nato – proprio nella cittadina
inglese di Rugby - dopo il calcio, nel 1823, mentre i più dei nostri
sportofili pensano che il rugby preesistesse al gioco delle pedate.
“Colpa” bellissima, quella nascita, di William Webb Ellis, studente, che
prese sottobraccio la palla allora rotonda e corse così, inseguito da
compagni e avversari (la coppa del mondo è intitolata a lui).
Chi ama lo sport e lo conosce almeno un poco e ha avuto la fortuna di
assistere in qualche modo a Nuova Zelanda-Francia deve mescolare
entusiasmo di tribù (quella dello sport) e tristezza
di nazione (il Bel Paese). Deve anche sapere e far sapere che il rugby
offre di regola spettacoli così, con l’agonismo più duro e pulito anche
quando la caratura tecnica è bassa. Deve, assolutamente deve pensare che
un po’ di denaro in meno al football
costituirebbe una cura di dimagrimento della boria, della tronfia
sicurezza di poter ignorare o bypassare leggi e regole. Senza dover
necessariamente trasferire quel denaro al rugby, che è grande e magari
anche grosso, ma che non deve assolutamente diventare grasso.
Gian Paolo Ormezzano