22/07/2012
Ferdinando Alonso ha vinto con la Ferrari tre prove su dieci della prima metà della stagione mondiale di Formula 1, e guida la classifica con 154 punti, ben 34 in più dell’australiano Mark Webber che pilota una Red Bull reputata invincibile all’inizio dell’anno. Per le altre sette gare, sette vincitori diversi. Al via del campionato le previsioni più ottimistiche, alimentate anche dallo stesso Alonso, erano per qualche miglioramento rispetto al triste 2011, in cui lo spagnolo si era aggiudicata una gara sola. E quando Alonso aveva vinto a Melbourne la prima prova del cartellone, si era parlato di casualità.
Quando ha vinto la seconda volta, a Valencia, si è persino parlato di fattore campo. Adesso ha vinto in Germania per conto della Spagna e dell’Italia, le due nazioni più vessate dalla troppo forte economia tedesca. Per ridiventare campione del mondo (lo è stato già due volte, ma con la Renault) gli potrebbe adesso bastare correre per i piazzamenti. Ma il fatto è che lui non riesce a impedirsi di stare in testa. E se agguanta la pole position sfruttando la pioggia che ama, poi vince anche la corsa sull’asciutto. Vince stando quasi sempre in testa ma anche sfruttando benissimo i pit stop (c’è chi dice che ormai queste corse di velocità sono vinte da fermi, mentre al box i meccanici cambiano, ormai in 3 secondi, le gomme ed eseguono piccoli rapidissimi lavori).
Intanto le altre scuderie cercano di capire quale diabolico segreto abbia le Ferrari, le filmano e sin dove possono copiano alettoni e sospensioni. Sono le stesse Ferrari che un paio di mesi fa erano state dichiarate “fallite”, sbagliate, inutili, defunte, nel senso che ormai avrebbero tirato avanti sui circuiti come dei fantasmi, sottomesse alla ribadita superiorità della Red Bull dominatrice con il tedesco Vettel del 2011 e anche della McLaren molto brava nel rinnovarsi. Si era parlato di errori gravi, di auto da rifare ex novo ma ormai per il 2013 di gap profondo, con le rivali sul piano della potenza, dell’affidabilità, dell’adattamento ai vari circuiti, della strategia nella scelta e nell’uso degli pneumatici.
La svolta è così clamorosa che persino i tifosi ferraristi, sempre pazzi d’amore che si vinca o che si perda, sembrano stare tranquilli, a contemplarsi sbalorditi l’ombelico che orpella la pancia ben nutrita di soddisfazioni. Davvero non ricordiamo (e stiamo vicini alla Formula 1 dal 1961, dopo di avere goduto del magistero di Enzo Ferrari in persona) un simile sconvolgimento di valori, un simile ribaltamento di pronostici. Non abbiamo spiegazioni e diffidiamo di quelli che sostengono di averle: sono gli stessi per i quali la Ferrari 2012 era una vettura fallita, la stagione era una stagione perduta.
Ci piacerebbe, ecco, poter ancorare tutto o molto all’affermazione dell’uomo sulla tecnologia spinta, sofisticata, poter dire che, proprio lì dove un accorgimento tecnico costosissimo e complicatissimo fa guadagnare alla vettura un millesimo di secondo, un atteggiamento speciale del pilota fa guadagnare un secondo bello intero. Potrebbe aiutarci Alonso, trentun anni, una grande lucidità di esposizione dei problemi risolti come di quelli da risolvere. Ma lui, che parla un italiano perfetto, come pochi non solo nell’automobilismo di Formula 1 (dove quest’anno, bisogna ricordarlo, non gareggiano piloti del Bel Paese), anzi come pochi in tutto il nostro sport, lui continua semplicemente a dire di grande lavoro ancora da svolgere, e intanto di meriti che sono di tutti, di risultati di gruppo con rifiuto di ogni euforia o anche di ogni soddisfazione prematura. Lo dice convinto, e ci convince. E’ legato alla Ferrari da un contrattone che va sino al 2016 ma il suo amore proprio non pare mercenario. E ovviamente lui, come d’altronde tutti quelli che lavorano, a Maranello o sui circuiti, attorno alla creatura più amata dagli italiani, non ha nulla dell’uomo magico, del bipede speciale. Dice cose educate, serene, non emette né ammette proclami.
Eppure la magia c’è, non la si vede ma c’è, c’è e la Ferrari di Alonso vince, rivince, ri-rivince spargendo persino più entusiasmo che stupore. Forse perché la Ferrari, che è cosa italiana dunque di un Paese matto e sgualcito, un povero Paese più che un Paese povero (definizione perfida ma ahinoi centrata di De Gaulle), ha una natura magica, miracolosa ben più che miracolistica. Nostra la colpa di non riuscire sempre a vederla, questa natura, mentre quelli come Alonso la vedono, la guardano e la sposano. E non ce la raccontano tutta, perché il balsamo se troppo spalmato non ha più effetti.
Sapremo qualcosa d’altro, di più o di meno chissà, di interessante sicuramente, domenica a Budapest, ultima gara prima del black out d’agosto.
Gian Paolo Ormezzano