25/03/2012
I primi soccorsi a Fabrice Muamba del Bolton (foto del servizio: Reuters).
Capita di pensarli semidei invulnerabili: giovani, belli, al
centro dell’attenzione, apparentemente intangibili: gli atleti hanno spesso,
per il nostro tempo, l’aura degli eroi omerici per i greci del mondo antico. Nell’illusione dell’invulnerabilità che viene dal fatto di
vederli fasciati in corpi non solo belli ma anche iperprestanti e
ipercontrollati, capita di pensarli immuni dall’imprevisto tragico che ad ora
incerta può attraversare, con l’agilità quatta di un gatto nero nella notte, la
strada di tutte le vite.
È già difficile accettare che gli dei rapiscano in cielo
Ganimede, troppo giovane e troppo bello, più difficile ancora accettare che
accada che la malattia arrivi all’improvviso nel mezzo di una carriera
sportiva, che si pratica con un corpo passato al setaccio dai controlli,
allenato con perizia scientifica, capace di prestazioni alla Batman.
Poi un giorno bussa alla porta un destino sgarbato e
all’improvviso capiamo che Vigor Bovolenta, che aveva il nome di un trapezista
russo che aveva incantato i suoi fratelli bambini e che aveva fatto parte della
Nazionale di Julio Velasco, la squadra di pallavolo eletta team del millennio,
non era invulnerabile come i supereroi. Aveva un cuore di carne come tutti e un
giorno senza preavviso, troppo presto, quel cuore si è fermato.
Si cercherà un perché - e sarà giusto anche per imaparare a
lavorare meglio in termini di prevenzione e per escludere sempre di più il
rischio, che pure esiste, di corpi portati all’eccessiva spremitura sull’altare
della prestazione, per accertare eventuali negligenze - ma è probabile che la
ragione sia la stessa banale umana
fragilità che ogni tot mette un campione tra i tanti a confronto con una
partita diversa, al buio, che a volte si vince e a volte no e che non si può
pareggiare. La stessa che mette Eric Abidal del Barcellona in attesa di
trapianto di fegato, che rimette il rugbista neozeladese Jonah Lomu davanti
alla recrudescenza della sua malattia, che ha visto fermarsi e poi ripartire,
dopo 78 minuti e 15 colpi di defibrillatore, il cuore del calciatore Fabrice
Muamba, anglo-congolese del Bolton, che
ha interrotto per un anno la carriera del nuotatore Paolo Bossini, appena
tornato alle gare dopo il linfoma di Hodgkin. I Greci la chiamavano Fato ed è
la più trasversale tra le vicende umane.
Se tendiamo a dimenticarlo è perché agli altri mondi,
lontani dai riflettori, non facciamo caso, mentre lo sport di vertice,
nell’illusione salutista di questi tempi, in cui diamo agli integratori il
ruolo della coperta di Linus, in cui pretendiamo dai medici la formula magica dell’immortalità,
ci sembra con i suoi corpi perfetti un’isola felice e immune, alla quale
proviamo anche ad accedere da comuni mortali– a volte correndo noi sì più
rischi del necessario - come al luogo ideale in cui scendere a patti con
l’anagrafe.
Poi, però, un giorno un cuore si ferma in campo, sotto i
riflettori, e ci ricorda con la violenza di uno schiaffo che siamo tutti, anche
i migliori di noi, fatti della stessa povera materia e che lo sport cessa di
essere metafora per diventare vita ogni volta che il dolore interrompe senza
riguardo di nessuno la sua sacra rappresentazione.
Elisa Chiari