16/04/2013
Sara Simeoni ai funerali di Pietro Mennea
Sara Simeoni maritata Azzaro, saltatrice in alto primatista mondiale e campionessa olimpica, compie sessant’anni. Pranzo per settanta persone nella sua casa-cascina-villa di Rivoli Veronese dove è nata il 19 aprile 1953: il marito Erminio bravo saltatore azzurro e poi suo allenatore, il figlio Roberto di anni ventidue alto due metri e capace di volare a 2,15, le due sorelle di lei più anziane, il fratello più giovane, tanti amici non necessariamente dell’ambiente sportivo.
Lo sport italiano deve dire grazie a quella che è stata la sua gloria massima e deve scusarsi per avere messo da parte quella che adesso fa soprattutto la casalinga e la contadina. Sara era stata chiamata da Primo Nebiolo, presidente mondiale tanto criticato da chi non ha saputo fare per l’atletica la centesima parte di cosa ha fatto lui, al Progetto Italia, che la voleva, con altri campioni, nelle scuole a insegnare ai bambini lo sport vero. Pochi anni, Nebiolo che scompare, il progetto che si dissolve. Più nessuno chiama Sara, che da casalinga tutt’altro che disperata se ne sta appunto a casa, permettendosi addirittura il lusso di un contrasto permanente con l’altra gloria veneta, Gabriella Dorio, oro sui 1500 a Los Angeles 1984, roba fra prime donne.
Sara Simeoni il 4 agosto 1978 ha saltato a Brescia 2 metri e 1 centimetro, prima donna al mondo capace di volare sopra il "muro". Ha ripetuto il record 27 giorni dopo. Sino al 1982 è stata primatista mondiale, poi Urlike Meyfarth, la tedesca sua grande rivale, l’ha migliorata di un centimetro. Sino al 1987 nessuna in Italiana meglio di Sara: poi Antonietta Di Martino, campana, ha saltato 2,02. Sara ha vinto un oro olimpico (Mosca 1980) e due argenti (Montréal 1976 e Los Angeles 1984), ha vinto un oro e due bronzi europei, due ori alle Universiadi, quattordici titoli italiani. Poteva diventare una bravissima ballerina di danza classica: lo sport se l’è presa tutta, e lei stessa dice senza rimpianti che «una stangona come me, di quasi 1,80, con scarpe da ballo quasi introvabili perché calzavo il numero 41, dovette fare la scelta, anche perché sul palcoscenico la sua stazza creava problemi».
Quando è morto Pietro Mennea, il 21 marzo scorso, Sara ha ricordato i tantissimi giorni vissuti insieme al centro di allenamento di Formia, ed anche la solitudine spartita insieme al coetaneo nei riguardi del loro sport che li ha messi da parte. Triste, Sara, davvero come per la perdita di un fratello. Ma è tempo di dire perché è lei la più grande italiana dello sport.
I Giochi olimpici hanno visto in assoluto la prima vittoria di un’azzurra a Berlino nel 1936: Ondina Valla oro sugli 80 ostacoli. Poi si è dovuto aspettare, per l’inno di Mameli nell’atletica, la Dorio di Los Angeles 1984, grande vittoria di una campionessa vera, ma una carriera ridotta rispetto a quella di Sara farcita da grandi record. Molte donne hanno portato oro al nostro sport dei Giochi, certe volte arrivando addirittura a salvare il bilancio azzurro, e basta ricordare gli exploits in pedana delle schermitrici, dalla Camber alla Vezzali passando per la Trillini, nello sci le discese della Compagnoni e le fatiche delle fondiste Belmondo e Di Centa, ma sempre ci sta, come dire?, una certa limitazione. Ora è una disciplina elitaria, settoriale, non praticata in tutto il mondo, ora è una situazione ambientale particolare e non certo possibile in ogni plaga del pianeta (la neve). E sta a sé il miracolo di Josefa Idem, canoista tedesca fattasi italiana per amore e persin troppo superiore, con le sue otto olimpiadi e i suoi successi in una carriera che va dai dodici ai quasi cinquant’anni, alla notorietà "magra" della sua specialità.
La Simeoni invece parla chiaro e forte a tutto il mondo, con i successi in uno sport, il salto in alto, che appartiene alla vita di tutti i giorni, che sta nei movimenti essenziali, che ha milioni, miliardi di praticanti inconsci. Carolina Kostner e Tania Cagnotto sono bravissime nei tuffi e nel pattinaggio artistico, ma quante pattinano e si tuffano, e in quanti paesi? Sul piano del rapporto fra sport e vita, fra gesto atletico e movimento vitale, una sola può avvicinare Sara, con i picchi di una carriera ormai lunga, ed è Federica Pellegrini la nuotatrice. Manca comunque al suo sport un continente intero, quello africano, e c’è il limite spesso elitario, per non dire razzista, della frequentazione delle piscine non resa possibile a tutte e tutte in tutto il mondo.
Insomma, Sara e poi Sara e poi Sara, e lei che piangendo Mennea, ricordando il successo suo e di Pietro ai Giochi di Mosca 1980, nelle interviste ricorda la commozione di loro due legata all’esecuzione dell’inno di Mameli nello stadio Lenin: ma quei Giochi patirono il boicottaggio degli Stati Uniti e del blocco occidentale per l’invasione sovietica dell’Afghanistan, e l’Italia gareggiò come altre nazioni senza gli atleti militari e sotto la bandiera del Comitato Internazionale Olimpico, e non furono suonati gli inni nazionali dei paesi che, come il nostro, avevano scelto questa formula contorta di partecipazione, per compiacere agli Usa senza dispiacere all’Urss. Sara ha ammesso la memoria errata anziché incolpare dell’errore i giornalisti, ha detto che lei comunque l’inno se l’è cantato dentro: ed è stata come un’altra sua vittoria.
Gian Paolo Ormezzano