14/09/2012
Simone Farina nel 2011.
«Non gioca perché non vuole». «No, non gioca perché non trova». «E’ uno da ammirare». Infuria il dibattito su Simone Farina nel calcio. Però nessuno segue l'esempio di Farina e nessuno lo vuole tra i piedi. Simone Farina, dopo che ha denunciato le combine nel pallone, per il pallone è diventato una patata bollente, da maneggiare velocemente per non scottarsi.
Dal giorno di quella denuncia, da quando la sua storia è diventata pubblica, Simone Farina non ha più detto una parola, è stato ospite alla consegna del Pallone d'oro e alla finale di Euro 2012, a suo modo è diventato un simbolo, ma scomodo. E, comunque, non ha una squadra in cui giocare. Farina probabilmente non voleva diventare un simbolo, voleva continuare a fare il calciatore, non nel Real Madrid, nel Gubbio o giù di lì, ma in un calcio e in un mondo in cui le partite si vincono e si perdono, senza sapere prima come vanno a finire.
Voleva fare il calciatore in un Paese normale. E infatti Simone Farina ha fatto quello che in un Paese normale sarebbe la normalità di ogni cittadino: denunciare un abuso, dove l’abuso è l’eccezione e la denuncia la norma. Se Simone Farina diventa un simbolo è un brutto segno. Vuol dire che vale la regola non scritta
per cui davanti a un abuso prevalgono nettamente quanti si voltano dall’altra parte.
Vuol dire che, al di là della facciata e dei proclami – a volte pure prematuri come la cacciata di Criscito dagli Europei perché coinvolto in un'indagine che poi l'ha riconosciuto estraneo ai fatti - , la sanzione sociale colpisce, nei fatti, chi tra la legalità e il malaffare sceglie la legalità. Vuol dire, anche se a parole dicono tutti il contrario, che al posto di Farina i più avrebbero scelto in silenzio il malaffare. Se le proporzioni fossero rovesciate, Farina non sarebbe un simbolo e giocherebbe senza problemi. Può non piacerci ma è questo lo specchio in cui, come pallone e come Paese, dobbiamo guardarci.
Elisa Chiari