25/04/2012
Carolina Kostner, 25 anni (foto e copertina Corbis).
E adesso? Carolina Kostner ha vinto i
Campionati del mondo inseguiti, sognati,
agognati per anni. Ed è un po’
come se Tantalo, alla fine, avesse agguantato
la mela e saziato la fame eterna cui
gli dèi l’avevano condannato. È un po’ come
se il coyote dei cartoni, alla fine, avesse catturato
lo struzzo Beep Beep.
«Che succede dopo? Non lo so ancora. Forse,
la cosa più saggia l’ha detta un mio amico.
Mi chiedeva come si sta in cima al mondo e io
non sapevo che dire, frastornata dal caos dei
primi giorni, quando tutti ti cercano. A un certo
punto mi ha chiesto: “Ti sei alzata dal letto? Sei andata in bagno? Hai fatto colazione?
Allora, tranquilla, è tutto come sempre”».
Un po’ meglio, però, con la soddisfazione
di aver «messo su un pezzo di carta che ho fatto
bene il mio lavoro». Ma ormai lo dice con
l’aria di chi aveva smesso di pensare all’obiettivo
come a un’ossessione: Carolina non è
mai stata Wile. E. Coyote, nemmeno nei giorni
in cui cadeva e si rialzava con la tenacia di
un disegno che non si fa mai male, pur ammaccandosi
– lei sì – dentro e fuori. E non
era neanche Tantalo: non aveva dannazioni
da scontare. Anche se per un po’ ha avuto,
dentro di sé, un giudice senza pietà: «Ai tempi
dell’Olimpiade di Torino, in cui non mi
concedevo il diritto di commettere errori,
andavo in gara con l’ansia di sbagliare».
Al gioco di fare la storia con i se non vuole
stare: «Non ha senso, non serve. Non posso
dire come sarebbe andata se avessi portato la
bandiera di Torino più tardi. Del resto, sono
andata peggio a Vancouver quando non ho
portato bandiere».
Poi, però, è accaduto qualcosa che ha fatto
sbocciare la Carolina che abbiamo visto sul
ghiaccio quest’anno: sicura, non più affamata
di centimetri da strappare alla forza di gravità
a ogni salto, verrebbe da dire più leggera: «Ho
imparato dopo Vancouver a smettere di pretendere
da me stessa l’obbligo del risultato,
non che il sogno di vincere l’oro mondiale
non sia stato una motivazione, ma ho cominciato
ad accettarmi com’ero: non sarò mai capace
di scendere fredda in gara, ammiro chi
lo fa, ma io non sono così. So che posso sbagliare
e accetto che possa accadere».
È l’esito di un percorso complesso, si chiama
maturità e come effetto secondario porta la
tranquillità: «Ora so che non c’è un allenatore
con cui potrei star meglio e un luogo in cui allenarmi
meglio. A 25 anni tanti dubbi del passato
sono spariti e voglio essere io a decidere
le cose importanti. Mi preoccupo di fare bene
il lavoro tecnico, il resto viene. Quest’anno
è andato tutto benissimo, non è detto che sarà
sempre così, ma a volte mi accorgo che in allenamento
faccio bene un salto e chiedo al mio
allenatore: “Sono così felice che ho bisogno di
ridere: secondo te sono pazza?”».
I salti sono il tormento e l’estasi di chi pattina,
potenzialmente trappole in cui si cade come
nei cartoni animati dove il ghiaccio frana
all’improvviso. Anche se una caduta, nel complicato
codice dei punteggi attuale, non è sempre
un baratro definitivo: «Il pubblico vede solo il capitombolo perché è clamoroso, ma tu
sai che se cadi al primo salto ne avrai altri otto
per rimediare. Sei consapevole che da quel
momento l’esercizio non sarà più perfetto: devi
accettarlo e andare avanti. Me lo ripeto
continuamente: “Carolina, può accadere,
puoi sbagliare, la vita non finisce”».
Non sa, perché ammette di non aver letto
ciò che si è scritto di lei in questi giorni, che
la sua storia è stata interpretata come un messaggio
di speranza per i ragazzi tentati di arrendersi:
«Però se hanno pensato così mi fa
piacere, sono cresciuta in una casa di valori
sportivi: rispetto, tenacia, disciplina. È bello
trasmetterli. Sono schiva, ma ho imparato a
gestire la popolarità e i bagni di folla, sono la
prova che riesco a comunicare emozioni, ma
la soddisfazione vera è nel silenzio del pubblico
mentre pattino, nella gioia dei miei genitori,
che hanno passato notti insonni per
me e che si sono bruciati infinite vacanze. Loro
sono stati sempre il mio rifugio. Era lì
che tornavo, sicura che non mi avrebbero
mai giudicata. Un dolore condiviso è più lieve,
una gioia condivisa è maggiore».
Anche se persino tra due atleti innamorati,
come Carolina Kostner e Alex Schwazer sono,
resta uno spazio con cui fare i conti in solitudine:
«Cerchiamo di non invadere reciprocamente
il nostro lavoro, però so che se ho bisogno
di chiedergli qualcosa lui c’è. E viceversa.
Ma ogni persona è diversa, è impossibile
leggere davvero nei pensieri dell’altro, un
po’ aiuta conoscerne i sacrifici».
Gli stessi che la gente, che vede solo gare,
invece può solo intuire: «È questo che mi ha
ferito in certe critiche: il fatto che venissero
da chi non capiva che un anno sono 10 giorni
di gara e 355 di fatica, infortuni, cadute,
dubbi e cose giuste, tutto nell’ombra».
A chi le domanda che cosa chiederebbe a
chi governa lo sport – lei che ora deve decidere
il futuro a breve termine e tra vent’anni si
immagina mamma in Alto Adige come sua
cugina Isolde – risponde così: «Che si smettesse
la corsa al sensazionalismo. Si cerca subito
un personaggio, un idolo, ma così si impara
poco ad avere la pazienza e la tenacia di
dare il meglio di sé, anziché porsi la fama come
traguardo». Sono parole importanti. Carolina
sa che cosa si prova. Chi vive dentro,
attorno e alle spalle dello sport farebbe bene
ad ascoltarle.
Elisa Chiari