27/04/2011
Pep Guardiola e José Mourinho a confronto.
Barcellona e Real Madrid si sono incontrati già quattro volte, in questa stagione, nella sfida detta “el clasico”:
1) campionato, girone di andata, a Barcellona 5 a 0 per i padroni di casa, e assurta a simbolo di gloria catalana la “manita”, la manina che fa ciao ciao con le cinque dita;
2) ritorno a Madrid, 1 a 1, partita dura;
3) finale di Coppa del Re (la nostra Coppa Italia) a Valencia, 1 a 0 per il Real, Cristiano Ronaldo ai suppplementari;
4) ieri sera a Madrid, prima semifinale di Champions League, 2 a 0 per il Barcellona, che prenota la finale, il 28 maggio a Londra, probabilmente contro gli inglesi del Manchester United , 2 a 0 all’andata in Germania sui tedeschi dello Schalke che aveva eliminato l’Inter (il ritorno martedì proprio a Barcellona, non una formalità ma una conquista possibilissima).
La partita è stata ovviamente inferiore alle attese, troppa tensione e troppe durezze, ma non ce l’ha fatta a diventare brutta e noiosa per la classe dei singoli e per gli accidenti di gioco, con il Real ridotto in dieci e Mourinho espulso e chiuso in una gabbia decentrata, impegnato a scrivere pizzini per quelli della sua panchina. Per un lampo breve ed un lampo lungo di Messi la partita è diventata bellissima: due i gol della “pulce” argentina, uno con un guizzo su un cross, l’altro con un lungo veloce perfetto dribbling artistico, maradoniano che ha portato a spasso quattro del Real, il pallone alla fine spedito in rete con un colpo da campione mondiale di biliardo.
Cristiano Ronaldo durante il match perso dal Real Madrid con il Barcellona.
QUEGLI STADI SENZA SBARRE...
Ecco, se Messi avesse giocato nel Real, il Real – che ha “soltanto”
Cristiano Ronaldo, un Messi di seconda mano - il Barcellona sarebbe
stato battuto. Questo alla fine è il calcio, le squadre mettono insieme
la partita, i singoli la decidono. Vista dunque questa partita che
ovviamente invidiamo al calcio spagnolo, anche se l’esito complessivo
del duello lo priverà di una finale fra due sue squadre, ci dobbiamo
domandare se il nostro calcio può trarre qualche insegnamento dal tipo
di gioco collettivo e dalle azioni dei singoli.
Diciamo subito che
secondo noi dal punto di vista della tecnica individuale non si può
imparare nulla perché, ad alti livelli, nessuno può insegnare niente a
nessuno. Se nella scherma il pluricampione olimpico va periodicamente
dal vecchio maestro a ripassare l’abbicì o la tavola pitagorica, se nel
basket anche Kobe Bryant ripete continuamente i “fondamentali” di quando
era ragazzino, nel calcio uno che si azzardasse a perfezionare lo stop
di Balotelli verrebbe squartato dallo stesso giocatore, uno che lo
facesse con Totti verrebbe deriso dalle moltitudini.
Dicendo di tattica,
il Barcellona gioca abitualmente un sublime calcetto, sia pure con
abilità enorme dei giocatori: tanta orizzontalità, l’affondo di rado,
roba inimitabile, anche se così facendo ha perduto –perché Messi si è
dimenticato di segnare - la semifinale e probabilmente anche la Coppa
l’anno scorso contro l’Inter (di Mourinho) pratica e puntuta. E’ una
eredità, questo gioco, di Cruyff, il grande olandese, prima come
giocatore poi come allenatore del Barça: tanti passaggi orizzontali, poi
lui, il Messi d’antan, che guizzava avanti, o faceva guizzare un suo
clone.
Quanto al Real Madrid, la sua tattica migliore consiste nel
lasciare che i suoi campioni si esprimano liberamente: e il club
ingaggia appunto gli assi più reputati, da Kakà a Cristiano Ronaldo, da
Benzema ad Adebayor, e non pensa (forse a ragione) che possa esistere
qualcuno che dica di no al suo fascino e ai suoi soldi, anche se poi
deve stare in panchina (Kakà) per sovrabbondanza di piedi troppo buoni e
poco pratici.
I due allenatori, Guardiola e Mourinho, non sono
assolutamente due professori di calcio. Sono due motivatori, ecco, e
secondo noi tutti gli allenatori sono tali, e basta, quando pure ce la
fanno: altro che maestri. Come motivatore Mourinho è il primo al mondo,
il più intelligente, il più perfido. Ha vinto eccome nella rituale
polemica prepartita, con battute, stimoli, proclami eccetera, ha perso
la gara di recitazione sul campo. Nessuno degli altri presunti maghi
della panchina può comunque avvicinarlo, e infatti il nostro calcio e
il nostro giornalismo calcistico sono orfani di lui.
Casomai possiamo
imparare, soprattutto dal Barcellona, il valore del vivaio: ma ci
vogliono umiltà, tradizione, persino un pizzico di sciovinismo
calcistico (il Barcellona è la Catalogna tutta contro Madrid e la
Spagna, non solo una squadra contro il Real). Pure il Real ha un gran
bel vivaio: che però patisce i continui arrivi di assi cresciuti
altrove, intanto che al vertice il club ancora sconta i favoritismi del
franchismo alla squadra della capitale.
Sono comunque tematiche non
nostre. I vivai del calcio italiano, come anche di quello francese, sono
in Sudamerica, in Africa, comodi e generosi. E adesso proviamo anche a
vergognarci un poco. Perché? Perché – ve ne siete accorti? – non solo
il calcio inglese, ma anche quello spagnolo, teoricamente posto di
passioni spinte e calori latini al cubo, non prevede negli stadi
recinzioni per tenere gli spettatori lontani dal terreno di gioco: e non
ci sono mai invasioni, neanche questa volta nonostante la tensione
altissima e non pochi episodi del genere cruento e la sconfitta dei
ragazzi di casa.
Immaginiamo un match Inter-Milan, da noi, o
Juventus-Roma, o Napoli-Palermo senza recinzioni. Ecco, forse si
potrebbe partire da qui per una sana imitazione.
Gian Paolo Ormezzano