11/09/2011
Ivan Ramiero Cordoba.
A volte i modi dicono più delle parole, parlano prima che uno apra bocca. E il modo con cui Ivan Ramiero Cordoba si è presentato al bagno di folla organizzato a Sondrio per i 140 anni della Banca popolare giovedì sera dice tante cose di lui. Non era neanche annunciato ed è rimasto lì defilato mentre Massimo Moratti parlava del suo modo di intendere il calcio. Ascoltava. E non è così frequente: chi è abituato ai riflettori di solito li vuole subito. Ivan no, ascoltava.
Poi, quando Moratti gli ha passato la parola, ha guardato alla sua sinistra dov’erano seduti i bambini e ha parlato per loro: «Un bambino deve sapere che chi diventa campione è stato come lui. In Colombia da piccolo ho vissuto una realtà certamente diversa da quella dei bambini qui a Sondrio, ma il motore è identico dappertutto: la passione per il pallone. È quella che ti costruisce i sogni, le speranze, gli obiettivi».
E non è che il talento sbocci sempre al primo sole: «Io non so se la mia esperienza può servire, ma credo di sì. Son convinto che uno dei momenti più importanti della mia vita sia stato quando da bambino un allenatore mi ha detto: "sei troppo piccolo per giocare in quel ruolo". Non mi sono arreso, ho giocato altrove e dato l’anima, ho voluto dimostrare a me stesso che ce l’avrei fatta. E ci sono riuscito. Quando quell’allenatore mi ha richiamato, sono tornato: ma non c’era spirito di rivalsa, mi era bastato provare a me stesso che l’essere piccolo non era un limite».
Una lezione imparata per la vita: "La devo anche alla mia famiglia che mi ha insegnato a pretendere il sempre il massimo da me stesso. Mi è servito d'esperienza quando sono arrivato all’Inter, 12 anni fa. Era come stare in una casa, perché è così che abbiamo sempre concepito questa società, come una casa in cui si dà e si riceve reciproco rispetto e, dopo tutto questo tempo, non riuscirei proprio a immaginarmi altrove. Ma di quella casa allora i tifosi chiedevano sempre di cambiare il mobilio, perché non si vinceva. Allora cercavo di ricordarmi dell’allenatore che mi aveva sfidato da bambino e quando mi sentivo giù andavo a confidarmi con Xavier Zanetti, il mio riferimento da sempre. Ricordo che mi diceva: “stai tranquillo, lavoriamo bene, fidati, vedrai che un giorno questa fatica pagherà”».
La notte di Madrid, con la sua coppa con le orecchie, è la prova che Zanetti aveva ragione. Dicono che il saggio capitano di poche parole tanta sostanza - con cui Cordoba condivide l'impegno solidale - abbia spesso ragione, ma non è l’unico da cui Cordoba sente d’aver ricevuto insegnamenti: «Credo che dobbiamo molto a mister Cuper, è stato lui che ha cominciato a cambiarci, insegnandoci a diventare gruppo».
E qui la testimonianza cambia passo, il messaggio si fa impegnativo: «Si parla tanto di difficoltà. Ma io penso sempre che per noi non ci siano vere difficoltà, ci viene messo a disposizione tutto il meglio, noi dobbiamo solo impegnarci e giocare. È un privilegio, una cosa che dovremmo ricordare spesso proprio perché stiamo così bene: non dovremmo mai dimenticare che la maggior parte delle persone non ha la nostra fortuna».
A Ivan non sfugge che anche il talento è un dono avuto in sorte: «Mi sento uno che è stato illuminanato da Dio e per questo lo ringrazio cercando di dare una mano a chi non ha avuto la mia fortuna. Ma credo che sia sempre troppo poco. Io sono felice anche quando devo recuperare un infortunio, anche quando devo allenarmi a parte come ora, anche quando vado in panchina. Certo poi non vedo l’ora di giocare e di festeggiare e soffro di non poter partecipare, però i problemi veri sono altri».
Bello. Capita di rado di sentire uscire dal calcio una storia così spontanea, così vera, quasi nessuno si racconta più così, come se intorno ci fossero soltanto bambini e pazienza se i signori con la cravatta sembrano più presi dagli schemi di Gasperini. «Ho detto quello che sentivo», ci ha risposto Cordoba quando glielo abbiamo fatto notare, e poi ha allargato un sorrisone quasi schivo: «ho detto quello che ho dentro. Il calcio spesso fa la figura di essere fuori dal mondo, sul piedistallo. Io voglio scendere, io non voglio vivere fuori dal mondo».
Elisa Chiari