14/10/2011
Valentina Vezzali.
Il mestiere delle armi è soprattutto una tecnica, nel senso etimologico del termine, un saper fare che si insegna e che si impara, cioè che si tramanda. Le cento medaglie olimpiche abbondanti, senza contare quelle mondiali in divenire in queste ore, sono la prova dell'efficacia di una tradizione, cioè di una scuola, cioè del fatto che, in uno sport molto tecnico, come è la scherma, campioni non si nasce, ma si diventa apprendendo da coloro che sanno. E forse non è un caso che gli allenatori della scherma si chiamino ancora, in ossequio alla tradizione, maestri.
Il maestro per eccellenza, senza togliere nulla agli altri, a questi Mondiali catanesi è Stefano Cerioni, Ct del fioretto, costretto dalla bravura e dal destino ad assistere sempre a finali fratricide: Vezzali contro Di Francisca, prima, Cassarà contro Aspromonte poi, tutti suoi e lui lì a guardarli giocarsi l'un contro l'altro armati l'oro e l'argento, mordendosi la lingua, perché in quei casi deve proprio lasciarli soli senza lo straccio di un consiglio o di un conforto, per non influenzarli.
Gli abbiamo chiesto com'è insegnare agli altri quello che si è stati e vedersi ogni giorno il meglio del mondo sotto gli occhi.
Stefano Cerioni a Jesi.
Cerioni, lei da schermidore un istrione matto, ha messo la testa a posto da quando la chiamano maestro?
«Son cambiato, son cambiato. Ho fatto tesoro degli errori di gioventù». (Ride sotto i baffoni).
Bisogna acquistare la saggezza?
«Per forza, non se ne può fare a meno. E poi si cresce, bisogna cercare di far tesoro dei propri errori per insegnare ad altri a non ripeterli, per portarli a vincere qualcosa di davvero importante come un Mondiale o un'Olimpiade».
E' stato uno schermidore molto istintivo, è così anche da tecnico?
«E' rimasto il dato caratteriale, si può modificare un po' ma non troppo, si possono correggere degli eccessi, ma l'istintività di fondo è rimasta. Però è diversa da quella che avevo in pedana: la carica agonistica di allora ora è canalizzata nello sforzo di rimanere lucido per dare all'atleta il consiglio giusto al momento giusto. Rivivo situazioni che ho già vissuto con una calma e una lucidità diversa».
Valentina Vezzali batte Elisa Di Francisca in finale mondiale.
Quanto rischia un ex campione di pretendere dagli altri quello che gli veniva naturale?
«E' la prima cosa che ho messo in dubbio. Essendo stato uno schermidore atipico, rivoluzionario per certi versi, ho cercato per prima cosa di mettere da parte le cose che venivano naturali a me. Poi ho provato a inserirle piano piano per capire se qualche atleta poi poteva anche sfruttarle, ma non prima di aver costruito una base tecnica classica. L'evoluzione tattica di un atleta, poi, si costruisce in base alle sue caratteristiche personali di carattere e schermistiche: ci sono schermidori portati all'attacco e altri più da difesa. All'inizio devi valorizzare al massimo le doti naturali e, nel contempo, lavorare sulle carenze: solo così si crea uno schermidore completo».
Campioni si nasce o si diventa?
«Rispondo con un esempio. Elisa Di Francisca è sempre stata una potenziale forte schermitrice, in una fase della sua crescita, nell'adolescenza, non capiva bene che cosa deve fare un'atleta a livello mentale e questo la portava a essere discontinua. Il nostro è uno sport in cui non basta essere al top fisicamente e tecnicamente. Serve qualcosa in più. A volte ci si gioca tutto in una stoccata (vedi Cassarà che ha battuto Aspromonte 15-14), e lì conta la storia del match. La lucidità, la freddezza, la capacità di prendere sotto pressione una decisione rapida: non tutti hanno queste doti, alcuni le hanno ma le devono anche allenare. Elisa era una di questi. Negli ultimi anni ho visto un cambiamento radicale di impegno e intensità. Ha trovato una costanza che non aveva prima».
Allenamento a Jesi.
Nel vostro allenamento quotidiano c'è la lezione di tecnica: Cerioni ex campione olimpico fa lezione a Elisa Di Francisca campionessa del mondo. Che cos'hanno ancora da imparare atleti come Vezzali, Di Francisca, Cassarà?
«Da atleta pensi di fare dei movimenti che normalmente sono automatici, ma se cambiano di ampiezza non sono più così efficaci, per questo l'atleta deve ripartire dalla tecnica che studiava da bambino per tornare a fare in velocità il gesto perfetto. In certe lezioni si torna proprio all'inizio, al gesto da ritrovare, poi si passa alle problematiche della gara. Ricrei una situazione e cerchi di correggere ciò che non va, dopo aver analizzato le soluzioni al problema in base al tipo di avversario. Devi dare all'atleta abbia più soluzioni tra cui scegliere. A volte il campione si ribella ti dice "ma io lo so fare così". "Vero, ma può esserci un avversario contro il quale quella soluzione non va a segno"».
Lei viene da Jesi, come Vezzali, Trillini e Di Francisca. Che cosa caratterizza una scuola?
«Normalmente caratteristiche tecniche simili, ma Jesi fa eccezione, perché Triccoli, maestro storico jesino, l'ha improntata a uno stile diverso che portasse ciascuno a sfruttare al meglio le proprie caratteristiche naturali».
Ha allenato molti schermidori, ha incontrato qualcuno che le somiglia?
«Qualcuno per caratteristiche fisiche, altri per carattere. Ma nell'insieme ero molto atipico».
Fare il Ct è complicato, soprattutto in un ambiente competitivo, in cui i suoi migliori si scontrano in finale. Come gestisce la competizione tra i suoi?
«Parliamo dei migliori al mondo, una rivalità è normale che ci sia. Il tuo compagno, quello con cui condividi l'allenamento, è il tuo primo avversario. L'importante è non superare certi limiti. L'educazione viene prima di tutto. Poi va da sé che un grande campione non può non avere una base di egoismo, se non l'avesse probabilmente non sarebbe un campione. Tenere insieme certe caratteristiche è difficile. E' fondamentale il rispetto, l'amicizia è bellissima, ma non indispensabile in una squadra. La scherma resta un combattimento, per quanto virtuale: la competitività è naturale».
Elisa Chiari