17/11/2012
Contro il Donetsk all'andata (Ansa).
Ogni tanto la Juventus si (ri)scopre amatissima, in Italia e fuori, ogni tanto odiatissima, specie in Italia. Basta il fischio di un arbitro, un fuorigioco sì-fuorigioco no, una dichiarazione amica o nemica. Molto di passionale, quasi niente di poetico: l’”odi et amo” di Catullo impegnava, squartava la stessa persona, qui sono persone diverse che casomai vorrebbero le une squartare le altre. Adesso si propone, da qui al 1° dicembre,una serie di impegni bianconeri ideali per propiziare lacerazioni: la Lazio di campionato a Torino nel tardo pomeriggio di sabato, il Chelsea di Champions League nella sera di martedì sempre a Torino, il Milan di campionato la sera di domenica a Milano.
E dicembre comincia con il derby, che torna dopo tre anni di Toro in B, ospitato la sera di sabato 1, poi il mercoledì 5 la trasferta a Donetsk, Ucraina, contro lo Shakhtar per quello che sarà probabilmente il match decisivo per accedere agli ottavi di Champions. E la domenica 9 grande liturgia bianconera per la beatificazione di Antonio Conte martire, che tornerà in panchina, a Palermo, dopo una lunga squalifica.
L'Italia di Prandelli (Ansa).
Se si considera che la Juventus affolla pur sempre la Nazionale di
Prandelli (ex juventino) e che arriva ad avere quattordici suoi
giocatori impegnati nelle partite infrasettimanali delle varie
rappresentative di vari paesi (oltre all’Italia, il Cile e la Francia e
la Danimarca e il Montenegro e la Svizzera e il Ghana e l’Uruguay, e
ricordiamo che il Brasile ha pensionato Lucio), la sua esperienza
globale e particolare ha un significato forte, a incremento appunto
dell’amore e dell’odio. Risalito in serie A dagli abissi di Calciopoli,
il club ha fatto in fretta a rioccupare, con metodi nuovi e autorità
antica, la scena storicamente più sua di ogni altro.
Se per anni lustri
decenni e orma si può anche dire secoli la Juventus scelse gli strumenti
della signorilità, dello stile fra casa Agnelli e casa Savoia, adesso
ha scelto la linea della bellicosità, della polemica, dell’urlo, persino
dell’anarchia nei riguardi delle leggi federali. Una operazione
serenamente lungimirante come la costruzione dello stadio di proprietà è
stata sincopata e pigmentata dai bandi per convocare i tifosi a
trasformare lo stadio in un inferno per gli ospiti, facendo lucidamente e
proficuamente evolvere il fattore-campo in qualcosa di simile alla
soggezione, se non all’intimidazione. Odiati, i bianconeri, anche perché
talora volutamente, scientificamente, astutamente odiosi. Le urla di
Conte quando sta in panchina fanno parte del copione unico, speciale. Il
vecchio presidente onorario Giampiero Boniperti, 84 lucidissimi anni,
lui che obbligava i calciatori a giacca e cravatta, ha emesso il suo
slogan da sessantotto perpetuo: alla Juve conta una sola cosa, vincere.
Si critichi la presunzione, si ammiri il coraggio. Se la Juventus fa la
Nazionale, arrivando sino ad avere otto dei suoi in azzurro, l’Italia
deve vincere e infatti vince le partite ufficiali, e si qualifica in
anticipo per il Mondiale 2014. Se la partita è amichevole dunque
sperimentale, Prandelli mette in campo poca Juventus e si gioca al gioco
di giocar bene magari perdendo, come contro la Francia l’altra sera.
Faceva così da citì anche Bearzot (ex granata).
Adesso c’è il filotto
che può affossare il Milan, killerare la Lazio, tenere sempre a distanza
l’irriverente Inter che ha impedito le 50 partite bianconere di seguito
senza sconfitte, umiliare il Toro e intanto fare andare avanti la
Signora in Champions League a spese addirittura del Chelsea detentore
della “coppa dalle grandi orecchie”. Il momento è come suol dirsi
storico. Storico e lungo. Sperando che gli arbitri e la loro legione di
assistenti siano all’altezza di tutto. All’altezza anche delle bassezze
di cui ormai il nostro calcio periodicamente non sa fare a meno.
Gian Paolo Ormezzano