24/02/2012
Valentina Belotti con il tedesco Thomas Dold, i due campioni del mondo di vertical running.
Quanto tempo ci vuole per salire un piano su per le scale di casa o d’ufficio? Una quindicina di secondi. Ma c’è chi se lo beve in 6-7 secondi.
Si chiama Valentina Belotti, è nata in Valle Camonica nel 1980, ha cominciato a fare atletica a 12 anni, è diventata una delle più forti specialiste italiane di corsa in montagna con i colori del Runner Team Volpiano, vincendo titoli nazionali, europei, mondiali, ed è la campionessa del mondo in carica di vertical running: salire in cima ai grattacieli più alti della Terra non con l’ascensore ma per le scale, il più in fretta possibile.
Per indossare la maglia iridata di questa spettacolare specialità corsaiola, seguita da un numero sempre più ampio di appassionati, Valentina non ci ha messo molto. Ha esordito nel maggio 2011 e nei mesi successivi ha infilato ben cinque successi, oltre a un secondo posto, sulle 12 prove del Vertical World Circuit, lasciando sempre le avversarie a debita distanza cronometrica: la finale del circuito mondiale si è disputata sull’Edificio Abril di San Paolo, in Brasile, e l’atleta italiana ha percorso i 149 metri d’altezza, per un totale di 30 piani, in meno di 4 minuti, staccando di 21 secondi la seconda classificata.
- Valentina, cosa l’ha spinta a dedicarsi al vertical running?
«La voglia di mettermi alla prova con una nuova specialità per verificare se fossi capace di fare altro dalla corsa in montagna. Ha influito anche il fatto che il mio fidanzato, Emanuele Manzi, già correva su per i grattacieli con ottimi risultati e ho voluto ricalcarne le orme. Insomma, una scelta un po’ per curiosità, un po’ per amore».
- Il titolo mondiale subito al debutto, mica male no?
«Sì, anche considerando che ho iniziato tanto per vedere l’effetto che faceva. E’ andata bene e ci ho preso gusto. Ora cercherò di ripetermi nell’edizione 2012 del circuito mondiale, che è partito ai primi di febbraio con la salita sull’Empire State Building di New York, partecipando almeno a una parte delle gare in programma. Non sarà comunque facile, perché adesso sarò marcata stretta dalle avversarie».
- Cos’ha di attraente per lei questa specialità podistica?
«Innanzitutto la diversità rispetto alle tradizionali specialità della corsa. Poi la possibilità di andare in città e paesi, per esempio il Vietnam, Singapore, Taiwan, lontani dal mio mondo abituale».
- Qual è la difficoltà maggiore nel correre il più velocemente possibile su per le ripide scale dei grattacieli?
«Riuscire non mollare mai. La gara dura una manciata di minuti, ma lo sforzo è molto intenso fin dai primi passi: si corre quasi senza prender fiato. Il segreto sta dunque nel saper gestire le forze lungo tutte le rampe fino alla cima».
- Si corre contro il cronometro, non ci sono avversarie a contatto di gomito. Come si capisce se si sta salendo bene?
«Anche se di solito si parte distanziate di 30 secondi l’una dall’altra, si ha modo di scorgere l’avversaria davanti e di regolarsi di conseguenza. Si gareggia tuttavia sostanzialmente contro se stessi e, pertanto, bisogna sempre dare il massimo».
- Quanto conta che pure il suo fidanzato corre in montagna e su per i grattacieli?
«Andate d’accordo, o c’è rivalità? E’ uno stimolo e un sostegno. Non solo Emanuele mi ha spinto a cimentarmi con il vertical running, ma mi aiuta anche tantissimo negli allenamenti. Inoltre, condividere ogni giorno la stessa fatica è senz’altro positivo per il nostro rapporto».
- Prende mai l’ascensore?
«Abito in Vacamonica in una casa a due piani con ascensore. Lo ignoro, tranne quando sono carica di valigie di ritorno da una trasferta o di sacchetti della spesa».
- Lei ha un forte legame con la montagna, tanto da essere diventata una specialista di corsa in altezza. Da cosa è nato?
«Molto è dipeso dai valori che mi hanno trasmesso i miei genitori, soprattutto mio papà Walter che è un cultore della natura e delle tradizioni locali, oltre ad avere fatto parte per anni del soccorso alpino del Cai. Correre in mezzo alla natura, anziché su una pista artificiale, dà un grande senso di libertà, aiuta a scaricare le tensione».
- Ha scritto anche un libro con suo papà. C’è in lei pure una vena di scrittrice?
«No, ho solo aiutato mio papà nella stesura di un volumetto intitolato “Andar per roccoli, alla scoperta di preziose testimonianze dell’architettura rurale in Alta Valle Camonica”. E’ stata un’esperienza piacevole, ma non certo l’opera prima di una scrittrice nel vero senso della parola».
- A parte l’atletica, quali sono i suoi interessi?
«Mi piace nuotare e andare in bicicletta. Leggo un po’ di tutto, dalla fantascienza ai thriller, ma prediligo in particolare la letteratura inglese a cavallo tra Settecento e Ottocento: i romanzi di Jane Austen sono i miei preferiti. Poi mi piace cucinare, specie i dolci perché sono golosa. Vado pazza per i piatti che prepara mia mamma: in cima alla lista metto i calsù, ravioloni di patate e formaggio, una delizia. Meno male che adesso non abito più con i miei: troppe tentazioni per un’atleta».
- Oggi è un’atleta a tempo pieno, ma la corsa prima o poi finisce. Sta già pensando a un futuro diverso?
«Sì. Ho conseguito la maturità in ragioneria e sono iscritta all’università, corso di laurea in valorizzazione e tutela dell’ambiente montano, anche se lo studio è momentaneamente in pausa a causa degli impegni agonistici. Mi sono inoltre diplomata in massofisioterapia, perché mi piacerebbe rimanere legata al mondo sportivo anche dopo avere appeso al chiodo le scarpette da corsa. E penso anche di metter su famiglia, prima o poi. L’atletica è una gran bella cosa, ma non è tutta la vita».
- Per concludere, a quelli che le scale si limitano a guardarle o fanno finta di non vederle, che consiglia una che grazie alle scale ha conquistato il podio più alto?
«Lasciar perdere l’auto, andare a piedi e, appunto, salire le scale il più possibile. Giova alla salute e non occorre arrampicarsi in vetta a un grattacielo: basta salire con calma qualche rampa al giorno. Quand’ero ragazzina, i miei non hanno mai voluto comprarmi il motorino e mi arrabbiavo tantissimo, perché gli amici ce l’avevano e io no. Ma a distanza di anni ringrazio papà e mamma perché, andando a piedi o in bici, ho guadagnato un sacco in benessere».
Maurizio Bianchi