L'antidoping indaghi la zona grigia

Uscito il dossier che smaschera Armstrong. La fine di un mito. Ma non basta cacciare gli atleti, bisogna bonificare l'humus in cui crescono.

11/10/2012
Lance Armstrong. (Ansa).
Lance Armstrong. (Ansa).

Il caso Armstrong, ma anche in modo diverso il caso Schwazer, con l’antidoping che alla fine non risparmia i migliori, sono stati a loro modo una lezione. Ci dicono che tanto, tantissimo, scappa alle maglie del controllo, ma non tutto. E in quel tutto, se del caso, si rastrellano anche i grandissimi. Ma, a differenza che in altri ambiti in cui si cercano con spasmodica ansia indecenti salvacondotti, qui i miti, quando vengono beccati con le mani nella marmellata, crollano davvero.

C’è di più, la caduta nella sua tragica potenza mediatica è un messaggio più forte di qualunque pubblicità progresso: dall’alto si cade peggio e ci si fa male. A differenza del passato i nodi vengono al pettine a lungo. Non bastano, come bastavano anni fa, ritiri strategici a stendere l’oblio sulle indecenze del passato: i controlli ora sono retroattivi, ogni volta che si trova una cartina di tornasole nuova che smaschera una nuova sostanza si può tornare a indagare sui risultati del tempo che fu, i campioni organici vengono conservati per anni e rianalizzati se indizi significativi lo richiedono.

L’effetto collaterale di tutto questo potrebbe essere l’implosione: c’è il rischio concreto che il pubblico si disamori a uno sport che, tra scommesse, doping e affari sporchi assortiti, lasci non all’apparenza ma nei fatti i suoi risultati in standby per anni. Di qui la tentazione dei tifosi, che come tutti gli innamorati faticano ad aprire gli occhi, di fingere di non vedere, di sostenere essi stessi l’insabbiamento, per non dover prendere coscienza dei propri sentimenti mal riposti.

È una tentazione che non si può e non si deve assecondare. Lo sport è un gioco e senza regole muore. Anche se si aprisse – come molti ingenuamente o per saturazione chiedono – al liberismo farmacologico, non si risolverebbe il problema: sarebbe una foglia di fico incapace di nascondere gare che tutti sanno falsate. I più pessimisti sostengono che già siano così, che quello che sfugge, o che si lascia sfuggire in discipline malcontrollate, sia infinitamente superiore rispetto a quello che si trova, che la punta del’iceberg sia infinitamente più piccola della superficie sommersa.

Se anche fosse, ma non è una buona ragione per arrendersi al malaffare, sarebbe come dire che è meglio smettere di dare la caccia ai mafiosi o ai corrotti perché tanto qualcuno sfuggirà sempre. Il doping come la mafia, come la corruzione, vive della retorica del così fan tutti, del consenso della cosiddetta zona grigia. Ecco, se l’antidoping ha un limite è nella caccia alla zona grigia: troppo spesso  ci si limita a squalificare l’atleta pescato positivo, ma ci si preoccupa troppo poco del brodo di coltura, medico, tecnico, culturale, dirigenziale, in cui la positività è maturata, del clima omertoso che la protegge.

Forse è ora di smettere di giocare allo scaricabarile dicendo, come si fa, che in certi sport si trova più che in altri perché si controlla di più: se anche fosse vero, sbaglia chi non controlla, perché se quando si controlla si trova, in politica come nello sport, l’alibi dell’accanimento si svuota da sé.

E forse non è nemmeno così vero che sia il pubblico, affamato di sangue, a “pretendere” imprese disumane. Quando il nuoto abolì i costumi di gomma si disse che il pubblico avrebbe abbandonato i nuotatori che avessero vinto andando un po’ più piano. E invece, che si sappia, nessuno si è stracciato le vesti per qualche primato in meno.

Elisa Chiari
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