04/07/2012
Balotelli sconsolato dopo la finale (foto del servizio: Reuters).
L’Italia ha perso la finale del calcio europeo contro la Spagna con quattro gol di scarto, un record all’ingiù, speleologico, per l’ultimo incontro di un grande torneo, dove si pensa che dopo una lunga scrematura debbano accedere allo scontro finale due squadre di valore pressoché eguale. L’Italia ha perso più che perduto, se si sta con chi distingue fra i due verbi: perduta è una cosa che si aveva e non si ha più - perduto il portafoglio, l’orologio, il denaro -, persa è una cosa che si poteva avere ed è sfuggita - persa l’occasione, l’opportunità, perso (e non perduto) l’autobus che passa vicino.
Noi, fra l’altro atleticamente e pezzi e psico-fisicamente stanchi, non possedevamo il diritto alla vittoria, e dunque non abbiamo perduto niente che fosse nostro. Della Spagna, che è forse come organizzazione e fluidità di gioco la più grande squadra mai apparsa nel calcio, sorella ragionatrice dell’Olanda fisica di Cruyff e del calcio totale, che è compagine perfetta per produrre gioco e anzi bel gioco, comunque siamo intrinsecamente più deboli, quanto a classe di giocatori e soprattutto a memorizzazione di schemi, di meccanismi geometrici e artistici insieme.
Casomai abbiamo perso l’occasione di inventarci nella finale qualcosa di mai fatto prima nel torneo, per esempio uno-due cambi audaci: Prandelli, che non è perfetto, ha sbagliato soltanto negli avvicendamenti dell’ultimo incontro, ci stava un Giovinco o anche un Diamanti al posto di un Thiago Motta che talora è “molliccio” anche se spesso fa il duro, che è sparito subito lasciandoci in dieci per mezz’ora, e che soprattutto è giocatore medio, ammollato furbamente dall’Inter al Paris Saint-Germain del denaro troppo facile. E ci stava magari l’audacia di tentare Ogbonna per un Chiellini mezzo rotto al via e tutto rotto dopo poco. Potevamo persino tentare di propiziarci con sussulti estremi d’orgoglio, o con recitazione furbetta perditempo all’italiana, a costo di buttarla un pochino in rissa o almeno commedia con gli dei e i demoni del pallone e sperare così di accedere ad un altro miracolo dopo quelli contro Inghilterra e soprattutto Germania, vincendo, anzi mascherando, fra l’altro la stanchezza, che era prevista dal programma sbagliato del torneo ma che abbiamo scoperto come ineludibile e anche “ingiusta” nei nostri riguardi soltanto alla fine della manifestazione, cioè tardi per rimedi, espedienti, cure speciali, magie.
Ma vinceva la Spagna comunque. Sul 2 a 0, in undici contro undici, aveva chiuso l’incontro, artisticamente e chirurgicamente. E detto questo possiamo accedere al gioco della vera grande domanda italiana: considerato come e quanto la Nazionale è stata felicitata dai nostri tecnici, giornalisti, politici, artisti, sociologi, studiosi, storici, imprenditori, psicologi, scienziati, intellettuali, accademici, profondi avventori del Bar Sport, dopo uno 0 a 4 beccato senza sfortune, casualità, ingiustizie, errori arbitrali, come e quanto sarebbe stata celebrata se avesse vinto? Quali e quanti problemi gravi del paese sarebbero stati dichiarati risolti dal felicissimo evento? Come e quanto l’occasione sarebbe stata sfruttata per letture di parte, così da godere al meglio di essa e assumerne anzi la paternità?
Si registri comunque l’avvento del nuovo sport italiota, dove subito siamo grandi: dal salire sul carro dei vincitori al salire sul carro dei perdenti. E si dica che, in cambio di questa felicità tutta artificiale, nei riguardi di una squadra che avevamo coperto di diffidenze assortite, sino a quella estrema e ipocrita e purtroppo legittima di assegnarle il ruolo eventuale, se vittoriosa, di propiziatrice di una troppo comoda e automatica amnistia per Scommettopoli, rischiamo di perdere di vista il tanto buono e il tanto bello di un torneo innovatore dove pure noi abbiamo contribuito alla produzione di partite oneste, regolari, persino belle, quasi sempre bene arbitrate, alla mancanza di violenze e furbate, alla piacevolezza complessiva del gioco e del tifo, insomma al successo dello sport e all’affermazione di talenti vecchi (il portoghese Cristiano Ronaldo su tutti) e nuovi.
Nel quadro del successo complessivo del quattordicesimo campionato europeo, una manifestazione in cui noi abbiamo vinto una sola volta e ben quarantaquattro anni fa, ci sta eccome il nostro contributo. I ragazzi di Prandelli sono maturati bene intanto che i suoi vecchi sono rimasti giovani. Ora lui ha due anni per portarli al Mondiale 2014 in Brasile, speriamo con lo stesso spirito, lo stesso cuore, la stessa testa, e con muscoli ancora migliori. Esponenti di un paese pieno di difetti e di guai, vittime e fruitori insieme di una situazione pallonara abnorme, ma sempre meglio intonati nel cantare l’inno (che gli spagnoli non cantano per la semplice ragione che non ne esistono le parole).
Quanto poi a far partire dall’Europeo intensi studi sul nuovo modo di giocare a calcio, su ispirazione decisamente spagnola ma ormai con partecipazione di tanti paesi, all’insegna della manovra continua, senza più il punto di riferimento costituito dal classico attaccante/puntero possente (quello spedito avanti a colpire di testa e di piede, a smistare palloni e tentare tiri, a prendere botte, ad abbattere muraglie), aspettiamo l’orgia rituale del bla-bla-bla, che comunque questa volta ci pare meno fumoso del solito, per elucubrare di tattiche, dando numeri e dando i numeri.
Con la benedizione dei club, felicissimi di questo mese in cui non solo si è accantonata (non rimossa, speriamo) Scommettopoli, in cui l’astinenza dal campionato è stata come sacralizzata, acuita dal calciomercato, e pazienza se Abete presidente federale si è schierato duramente con Prandelli contro la Lega iper-professionistica che non ama la Nazionale e le nega o le limita i giocatori per i raduni di preparazione. Ci sarebbe da fare una santa crociata, finalmente, ma tempo pochi giorni e un foruncolo di Ibrahimovic sarà più importante del secondo posto dell’Italia in Europa
Gian Paolo Ormezzano