08/08/2011
Del Piero, Totti, Gattuso, Zanetti.
Stavolta l'autografo che a volte firmano sospirando, l'hanno messo volentieri tutti quanti. Davanti al contratto collettivo che non si firma si sono mobilitati i capitani: Totti, Del Piero, Gattuso, Zanetti, venti in tutto, quelli con il nome pesante. Hanno messo nero su bianco che se non si firma il contratto collettivo, per cui c'è un accordo raggiunto da maggio, la Serie A non parte: si serrano le porte del campo di calcio, si sciopera.
In sé, formalmente, è tutto legittimo. L'accordo c'è ma i presidenti non firmano (stupendo esempio di volatilità della parola data): oggetto del contendere i giocatori fuori rosa. I presidenti pretendono che si allenino separatamente, i calciatori temono che la separazione comporti rischio di mobbing.
Se le rivendicazioni sono in sé sensate, resta un'ombra che riguarda le parole e i concetti in campo. Parliamo di contratti e di scioperi, in un momento in cui l'Italia intera avrebbe buone ragioni per stare in piazza a rivendicare: un'economia più equa, diritti negati, lavoro che non c'è o sta relegato nel sommerso. Scendono in piazza, da una parte e dall'altra - vale per i presidenti e per i giocatori - i titolari di un realtà lavorativa, in cui girano a stagione quattrini che le persone normali non solo non vedranno in una vita, ma che non sanno neppure immaginare tutti insieme, a meno di non pensare alla vasca di monete d'oro di zio Paperone.
E allora, fatta salva la legittimità delle rivendicazioni, bisognerebbe chiamare in causa la delicatezza, per ricordarsi che lo stipendio milionario lo pagano sì i presidenti, ma solo perché ci sono un sacco di persone comuni, con o senza lavoro, con e senza contratto, che pagano il biglietto dello stadio o l'abbonamento alla pay-Tv.
Ecco per rispetto a loro, sarebbe il caso di scendere dal cocchio tutti quanti, di leggere un po' più giornali, non solo le pagelle della partita, ma anche le prime pagine, quelle in cui si parla dell'economia che va a rotoli, per avvicinarsi un pelo al mondo di tutti. Per capire che, in un luogo - l'Italia - in cui il 30% degli under 30, cioè dei coetanei dei calciatori, non può scioperare semplicemente perché non ha un lavoro, e tanti di quelli che ce l'hanno non hanno contratti da riventicare perché sono "atipici" e un contratto collettivo se lo sognano la notte, in un luogo in cui molte famiglie stanno perdendo i pochi risparmi investiti in titoli di Stato, minacciare uno sciopero, quantunque legittimo, se a farlo è una categoria che guadagna milioni di euro a stagione, potrebbe suonare indecente.
Non è questione di legittimità, è questione di sensibilità: di provare a dimostrare che il calcio è sì un bel modo di dimenticarsi per novanta minuti i mali del mondo, ma non è sempre, come sembra, fuori dal mondo.
Elisa Chiari