23/10/2011
Marco Simoncelli e la sequenza del suo incidente.
Adesso sarebbe il caso di bandire definitivamente un accostamento aggettivo-sostantivo consueto tra i cronisti di sport motoristici: "spettacolare incidente", a meno di non ammettere che il pubblico che ne fruisce sia assetato di sangue. Perché a volte succede, oggi è successo, che lo spettacolo diventi tragedia.
Per rispetto di Marco Simoncelli caduto stamani sulla pista di Sepang, per rispetto di Fabio Casartelli, vittima di un antico Tour de France, per rispetto di Ulrike Meier, partita e mai arrivata alla fine di una tragica discesa libera 17 anni fa, per rispetto del lungo elenco che li ha seguiti e preceduti sarebbe ora di darsi come regola morale l'impegno a non abbinare più quell'aggettivo e quel sostantivo.
Al di là di questo resta la fatica di trovare le parole del dopo. Lo sport è, a seconda dell'occhio di chi lo guarda: una straordinaria metafora del mondo e della società, un costoso e rutilante spettacolo, un lavoro ambito e ben pagato, una potente e simbolica scala su cui misurare le proprie capacità, un nonsense inutile. Può darsi che sia un misto di tutte questi punti di vista.
E' un dato di fatto che di sport si vive e, qualche volta, purtroppo, si muore. E per chi ne vive e ne muore lo sport è un lavoro. Un lavoro particolare, vissuto fino alla fine sotto i riflettori, simbolo del privilegio del successo e insieme del voyeurismo che la visibilità comporta: ne sarà domani esempio distorto il numero di click che calcolerà il tragico successo mediatico del video dell'incidente di oggi, meta di una quantità di cybercuriosi.
Si fa una fatica terribile ad accettare razionalmente che si possa morire a 24 anni per una gara, per un lavoro che a tanti sembra futile. Seguiranno fiumi di retorica, ma se vogliamo ricordare degnamente Marco Simoncelli, dobbiamo far in modo che le domande che oggi sorgono a proposito della sua tragedia platealmente pubblica, tornino a interrogarci ogni volta che in questo paese un Marco sconosciuto, altrettanto ragazzo, muore di lavoro, senza riflettori per pochi soldi.
Se sapremo fare questo, se sapremo, turbati dalle immagini di oggi, farne tesoro ciascuno nel proprio ambito: ricordando il casco al nostro amico in moto, imponendo l'imbragatura all'operaio alle nostre dipendenze, avendo un occhio di riguardo sulla sicurezza dei nostri sottoposti, pretendendo il rispetto delle norme di sicurezza sul nostro lavoro, la visibilità che oggi ci pare sconcia – almeno quella - avrà avuto un senso.
Elisa Chiari