14/04/2012
Piermario Morosini in azione (foto del servizio: Reuters).
E’ molto
difficile scrivere, in prima persona che a molti parrà sin troppo singolare, di
non essere d’accordo con la decisione della Federazione calcistica di
sospendere tutti i campionati, con effetto immediato (niente anticipo fra Milan
e Genoa già alle 18 del sabato), per la morte in campo di Piermario Morosini,
neanche 26 anni, calciatore del Livorno. Però sento di doverlo scrivere, e
provo a spiegare, vincendo la commozione, autentica in chi allo sport ha dato
una vita di lavoro, e bypassando professionalmente l’emozione, come in tante
altre volte il giornalista ha dovuto fare e ha fatto.
Non d’accordo perché si blocca tanta attività
che poteva invece essere indirizzata a commemorare degnamente il povero ragazzo
(fra l’altro “massacrato” dalla vita: persi presto i due genitori, unico legame
quello con una sorella handicappata, dopo il suicidio di un fratello anch’egli
disabile). Siamo certi che il minuto di silenzio avrebbe avuto una intensissima
partecipazione, non siamo certi che, senza questo appuntamento con lo sport
tutti noi, atleti compresi o atleti per primi, saremo capaci di degnamente dedicare
ricordi e attenzioni alla tragica vicenda, specie dopo aver pagato il “dazio”
della sospensione e intanto trovandoci infognati nel giocaccio delle polemiche (soccorsi
in ritardo?) e dei sospetti (eccesso di stress?).
Non è questione di riferirci al detto/diktat
del mondo dello spettacolo, per cui “the show must go on”: l’evento sportivo
non è (ancora) soltanto uno show, anche se c’è la tendenza, proprio in chi
comanda con le leggi o i soldi, di farlo tale. Semplicemente l’evento sportivo contiene
in sé le regole o quanto meno le
convenzioni rituali per partecipare al dolore e propiziare la meditazione.
Siamo certi che i ragazzi che non giocano a calcio per via della sospensione
meditino di più che se fossero stati invece coinvolti nella comunione dell’andare
avanti tutti insieme, nel nome di Morosini?
Nel 1972 chi era ai Giochi olimpici di Monaco
visse sul posto, in poche ore, l’evoluzione mentale dello sport tutto: dal
richiesto stop di ogni attività subito dopo il massacro degli atleti israeliani,
all’andare avanti per dare il forte messaggio della vita che continua, che non
si arrende alla morte, con ai caduti l’omaggio proprio del superamento del
momento terribile.
E ci sono anche altre considerazioni: per esempio,
se muore in un campetto di un campionato piccolo un ragazzo, si deve fermare
tutto? Quale deve essere, per lo stop, il livello della manifestazione? Serie A
e serie B vanno bene, la Semipro può bastare? E il campionato Prinavera? E l’attività
nazionale degli Allievi e dei Giovanissimi? C’è un limite di notorietà della
vittima e del suo mondo, sotto il quale non si può ordinare una sospensione?
E sempre in tema di interrogativi che qualcuno
può definire cinici, specie se non sa dare ad essi una risposta: sicuri che
nella decisone federale non siano entrate anche considerazioni sull’opportunità
di celebrare un lutto così, coralmente e ufficialmente, sperando di portare
aiuto alla sacralità dell’evento sportivo, messa ultimamente in discussione da
Scommessopoli sempre più inquinante e sconvolgente? E pensando anche a Vigor
Vobolenta, il pallavolista azzurro morto di recente in partita, a 38 anni, a
Fabrice Muamba centrocampista inglese “resuscitato” dopo 78 ore di vita
vegetale per infarto durante il gioco, si medita forse sull’opportunità di un
ripensamento senza assilli di partite potenziali pericolosamente, per valutare
il tremendismo delle richieste nello sport di vertice e l’approssimazione dei
controlli nello sport “piccolo”, e magari anche il pericolo di aggiramento degli
eventuali problemi con sistemi che possono celare dei pericoli?
Gian Paolo Ormezzano