31/07/2012
Filippo Magnini.
Federica Pellegrini si è dimostrata quello che è sempre stata: una campionessa onesta e lucidissima. A caldo subito dopo i 400 stile ha detto: «Non ne avevo più, non ho niente da recriminare». Le parlavano della testa e lei razionalmente ha replicato: «La testa da sola non ce la può fare». Puoi buttare il cuore oltre l'ultimo bordovasca, ma le braccia e le gambe hanno i tempi che possono, e quest'anno le bracciate dicevano di tempi che non sono mai stati i migliori al mondo in assoluto, tra i migliori sì ma mai, come in passato, soli al comando. Il nuoto non è il pallone, non esiste la dea bendata in vasca, c'è una possibilità che esista la sfortuna ma non è questo il caso: si dà quello che si ha, quasi mai di più. Non è scienza esatta, ma quasi.
Le copertine illudono l'uomo della strada che la campionessa degli ultimi otto anni, quella che dal 2004 si prende sulle spalle il nuoto italiano e lo porta in cima al mondo, debba sempre vincere, sempre limare quel secondo, sempre estrarre il coniglio dal cilindro. Ma lo sport è una cosa seria. C'è il mondo là fuori che bussa alla porta del numero uno per buttarlo giù. E nel nuoto è mondo intero, senza buchi sul planisfero: dagli Stati Uniti all'Australia, dal Sudafrica alla Cina: dominarlo per otto anni non è uno scherzo. Anche se a volte seduti in poltrona lo sembra.
Federica Pellegrini quest'anno ha vinto i Campionati Europei con un tempo poco superiore a quello del quinto posto di stasera, segno che quello aveva da dare. Ci sono state altre delusioni, oggi, più cocenti e meno prevedibili di questa sulla carta dello sport italiano: l'eliminazione degli arcieri, per esempio, i fiorettisti fermi alla medaglia di legno, ma di loro nessuno si cura. Nessuno li conosce. Federica invece la conoscono tutti. La condanna dei numeri primi si chiama solitudine. Dopo che hanno vinto tanto, i numeri primi smettono di appartenere soltanto a sé stessi: diventano di tutti e sono destinati a prendersi sulle spalle la delusione dei tanti che ci hanno creduto con loro. Mica facile: tocca cacciare indietro la propria amarezza, per andare davanti ai microfoni a gestire quella degli altri.
Forse per capire quanto sia difficile restare tanto ai vertici a mulinare acqua, nel silenzio, bisognerebbe chiedersi dove sono andate a finire le avversarie che contesero in vasca l'argento olimpico a Federica ad Atene otto anni fa: tutte altrove, nel mondo, nella vita. Di quelle che le contesero l'oro di quattro anni fa a Pechino, solo Catlin McClatchey, sesta allora, era in finale stasera: è arrivata settima. Fede fino a stasera è stata lì a giocarsela, e nel mezzo ha sempre vinto. Eppure chi lo conosce sa che il nuoto brucia in fretta. Se l'avevamo scordato è stato merito di Fede. Sarebbe ingrato dimenticarlo.
Le altre analisi sollecitate da Filippo Magnini verranno, a freddo, nel chiuso degli spogliatoi, a tempo debito. A Fede, dovunque vada, comunque vada, resterà la storia scritta fin qui, che nessun quinto posto, ormai, potrà più cancellare.
Elisa Chiari