08/10/2011
Le medaglie di Pechino 2008.
In tutto il mondo civile la pena è concepita anche come occasione, per non dire più chiaramente come strumento, di riabilitazione, di recupero, non solo di espiazione: e infatti l’ergastolo è messo in discussione e viene spesso “piallato” da accorgimenti vari, perché se “eseguito” sino in fondo non lascia possibilità di ritorno alla vita normale. Uno commette un reato, viene punito, espia, poi deve tornare ad essere eguale agli altri, stessi diritti.
Nello sport, o almeno in certa parte di esso, non è così, o si vuole che non sia così. Un reo di doping condannato a una sospensione di oltre sei mesi per il Comitato Internazionale Olimpico, padrone dei Giochi, non può partecipare alla massima manifestazione dello sport, non può sfruttare la migliore occasione di lavoro che a lui, ormai accettato come professionista, venga offerta.
Non può? Lo dice anzi lo ribadisce il Cio, dopo che una sentenza del massimo organo giudicante il mondo dello sport, cioè il Tas (Tribunale per l’arbitrato sportivo, sede a Losanna dove sta anche il Cio) ha sancito invece il diritto di riammissione ai Giochi degli ex dopati che hanno espiato condanne anche superiori ai sei mesi (buffa e/o ipocrita poi questa quantificazione: sei mesi sì, sette mesi no?). Il Cio in pratica dice dell’Olimpiade: questa è casa mia, faccio entrare chi voglio, e deve essere a posto con i miei dettami.
Sembra quasi un ragionamento nobile, non fosse che la stessa casa è stata venduta o comunque affittata a entità che si chiamano sponsor ed emittenti televisive, e che con i loro tanti soldi si sono comprati tutto, compreso il diritto ad avere il migliore cartellone possibile, oltre a quello di adeguare programmi, gare, discipline alle loro esigenze. Il Cio, con ente di punta il Comitato organizzatore dei prossimi Giochi, quelli di Londra 2012, dice che l’ammissibilità alle gare olimpiche è comunque decisa, a ben vedere, dalle federazioni (in sostanza il Cio registra e vidima le decisioni federali), che a loro volta tengono conto di tanti fattori: risultati dell’atleta o della squadra, tempi di qualificazione, profilo disciplinare…
LaShawn Merritt.
Tutto valido sino a che un qualche atleta, forte della sentenza del Tas, non fa causa: e possono ballare milioni di dollari, anzi di franchi svizzeri. La sentenza è stata emessa a favore di LaShawn Merritt,
quattrocentista statunitense di 25 anni, oro olimpico ai Giochi di
Pechino 2008, squalificato per doping nel 2009, pena espiata di 21
mesi. Rientrato, ha vinto l’argento individuale e l’oro in staffetta ai Mondiali di quest’anno. Ha
saputo che Londra 2012 non lo avrebbe accettato in gara, ha portato il
suo caso davanti al Tas, che non ha potuto che adeguarsi alla
giurisprudenza dei Paesi più civili.
Ma la casa olimpica tiene duro, fra l’altro appoggiandosi
alle federazioni più intransigenti. Perché ce ne sono di morbide: quella
ciclistica spagnola ha assolto il suo Valverde, condannato per
doping in Italia, quella tedesca ha già fatto sapere che accetta nella
sua squadra nazionale una che quando era pattinatrice ha avuto una lunga
condanna, quella russa di atletica ha tutte le intenzioni di difendere,
cioè di presentare, una sua martellista che ha “pagato” espiando una
pena.
Noi italiani abbiamo sette atleti con il “problema”, cinque
ciclisti (tre le donne) che non saranno difesi dalla federazione, un
pallanuotista e un maratoneta che forse, chissà… Nel 2013 la Wada
(l’agenzia mondiale antidoping) riscriverà le sue leggi, probabilmente
in armonia con il Tas, ma Londra olimpica arriva prima. E il pronostico più facile è quello di una grande confusione, di intersecazioni fra linee dure e linee molli, con produzione di ingiustizie.
Noi diciamo semplicemente che si può e si deve essere nemicissimi del doping, che le leggi “anti” devono essere severissime,
ma che il principio della pena che “ripulisce” il reo è sacro, e deve
essere tenute presente sempre, comunque, dovunque. Siamo di fronte ad un
concetto chiaro, elementare del diritto. A Losanna-Tas lo sanno, a
Losanna-Cio non vogliono saperlo. Il resto è ipocrisia. Il doping va
combattuto con la forza di una giustizia che non ha paura di essere se
stessa sino in fondo, e che non accetta privilegi o regolamentazioni di
enti, manifestazioni, organizzazioni.
Casomai si aumentino le pene, e soprattutto si controllino
quegli sport (tanti) che sinora sono riusciti a passare per quasi puri
semplicemente perché non c’è (non si vede) doping dove non funziona un
buon antidoping. E per finire in chiave di paradosso-ma-mica
troppo: se si argomenta che un ex dopato non può gareggiare perché ha
messo su muscoli, col doping appunto, che altri non hanno, si rischia di
finire per ammettere che un certo doping fa persino bene. Aiuto.
Gian Paolo Ormezzano