06/05/2012
La Juventus è campione d’Italia 2011-12, ha
vinto il titolo con un turno di anticipo e grazie anche al successo abbastanza
strabiliante dell’Inter sul Milan nel derby. La Juventus a Trieste, battuto il
Cagliari, fa festa per quello scudetto, ufficialmente il ventottesimo, che lo
stesso club insiste a numerare come trentesimo (sarebbe la terza stella, ancor
più davanti ad ogni altra società in Italia), non riconoscendo la decisione federale che le ha tolto - per
le gravissime colpe soprattutto del suo direttore generale Luciano Moggi, principale artefice delle
trame acchiapparbitri nello sporco affare chiamato Calciopoli - il tricolore
del 2005, non assegnato e men che mai dato al
Milan secondo con colpe, ma soprattutto quello del 2006, regalato
all’Inter dribblatrice casuale (pare) dell’inchiesta sugli illeciti dei
fischietti.
Ancora una volta, e sperando (poco) che sia l’ultima, precisiamo il
nostro punto di vista: scudetti 2005 e 2006 legittimamente tolti alla Juventus,
scudetto 2006 illegittimamente assegnato all’Inter. I due club farebbero una
bella cosa smettendola di litigare, ma trattandosi di decisione anche
intelligente e persino sportiva non ci contiamo troppo e aspettiamo altre
penose polemiche, tanto per speziare la sporcizia di base del calcio tutto, che
ora preoccupatissimo attende le sentenze dell’ultimo scandalo, quello chiamato Scommessopoli.
Antonio Conte.
Ci sono tre nomi e cognomi pesanti, nomi della storia juventina antica e nuova, in questo gagliardo scudetto della Juventus, meritato eppure discusso, meritato anche se discusso, comunque conquistato con il primato dell’imbattibilità che ha significato troppi pareggi con le piccole ma soprattutto grossi successi nei confronti diretti con le grandi: tre nomi e cognomi, quelli di Gigi Buffon, Alessandro Del Piero e Antonio Conte.
Anche se in linea di massima non crediamo molto all’importanza gonfiata, sacralizzata dell’allenatore cominciamo dal terzo. Per dire che Conte, ex giocatore bianconero è stato decisivo, e non importa se con l’aiuto del pubblico dello stadio di proprietà, a cui lo stesso club ha attribuito a priori cinque-sei punti in più per l’effetto programmatissimo del fattore-campo, con il tutto esaurito continuo garantito da tifosi appassionati e capacissimi di mandare regolarmente in onda lo psicodramma meglio coinvolgente.
Conte non solo ha saputo dosare con opportuno turnover la forza, la capacità, la condizione dei suoi, ma ha saputo parlare di scudetto soltanto al momento giusto, dopo avere a lungo posto l’accento psicotatticamente prudente, quasi frenante e intanto stimolante sul settimo posto della Juventus consegnatagli dal club alla fine del torneo 2010-11.
Sul piano dialettico è stato perfetto, anche in occasione delle polemiche con il Milan dopo il gol negato al rossonero Muntari. Giustamente ambizioso, Conte è stato comunque umile nel circondarsi di uno staff con alto potere decisionale per la preparazione atletica e per l’attività sanitaria. La Juventus dei troppi infortunati, molti poi stranamente lungodegenti, di un anno prima è diventata squadra di forte fisicità, con disponibilità quasi ti continua di tutti i giocatori. Il contrario del troppo celebrato Milan Lab, tanti macchinari sofisticati e però tanti atleti infortunati.
Ma Conte è stato anche l’uomo che, dopo avere giocato in squadra con Buffon e Del Piero, ha saputo gestire come meglio non si poteva l’occaso anagrafico dei due. Buffon, che pure era rimasto bianconero al tempo della Juventus in serie B, nello scorso campionato era in crisi nei riguardi della società, che lo aveva quasi scaricato preferendogli, sullo “slancio” di un brutto problema fisico, Storari, ora ridiventato riserva senza problemi. Tornato primo assoluto in Italia, il portierissimo si lancia adesso, a 34 anni, verso una ulteriore consacrazione internazionale agli Europei. Molto semplicemente, un grande, che si è acquisito il diritto a umanizzarsi, cioè a sbagliare anche lui, con una strepitosa gaffe alla terzultima giornata, gestendo la papera con classe assoluta.
Alessandro Del Piero.
Del Piero, 37 anni abbondanti, poteva essere un serio problema, dopo l’improvvido annuncio, dal punto di vista temporale, dato nell’ottobre 2011 dal presidente Andrea Agnelli agli azionisti bianconeri, della cessazione, alla fine del giugno 2012, del quasi ventennale rapporto calciatore-club. Lui si è detto semplicemente “stupito”, si è tenuto in forma, è entrato in campo quando Conte ha schioccato le dita, giocando anche per pochissimi minuti, non si è associato al coro di quelli che parlavano di sua umiliazione, ha segnato gol decisivi, da fuoriclasse per niente appesantito da orgoglio da divo, anagrafe da vecchietto, guadagni da emiro.
Diciamo pure che ha ripristinato, proprio mentre il club faceva sapere di non voler contare su di lui ulteriormente, quello stile-Juventus di cui si era molto parlato nel passato ma di cui ultimamente si erano perse le tracce. Sicuramente la sua amicizia con Conte ha avuto un gran peso. Conte che ha saputo tirare fuori il meglio, per dire dei nuovi arrivati, soprattutto Vucinic e Vidal e Lichsteiner, ha ridato slancio a Chiellini e Marchisio e Barzagli, ha gestito bene anche la liquidazione di Krasic, che forse aveva promesso troppo, sicuramente ha mantenuto poco.
E soprattutto ha lasciato giocare da grande libero (libero di inventare e dirigere) Pirlo. Si sa che i tre moschettieri sono quattro, Pirlo è il quarto. Essì, Pirlo alla Juventus è stato il grande errore del Milan. Con lui ancora in rossonero, nel club che ormai lo aveva dato per bollito, la classifica forse ora sarebbe diversa. Mentre l’Inter di Gasperini-Ranieri-Stramaccioni, nessuno taumaturgo ma nessuno nocivo, deve soltanto o addirittura fare i conti con l’invecchiamento dei suoi campioni ricchi e appagatissimi e casomai con la voglia matta che il presidente Moratti ha di spendere tantissimo per un ennesimo allenatore di grido, da vetrina. E però riesce ancora, a un turno dalla fine, a sperare nel terzo posto, che vuol dire Champiosn League, preliminari da superare ma pur sempre grande Europa.
Le altre squadre che hanno lottato per il terzo posto (uno di meno degli anni scorsi) nella Champions League, e cioè Udinese, Napoli, Lazio e Roma, oltre alla stessa Inter, hanno praticato per lunghi periodi il “ciapanò”, quel gioco milanese delle carte che consiste nel fare il minor numero di “prese” possibile. Senza volerlo, sono anch’esse emblematiche di un campionato in cui molte compagini hanno dato l’impressione di patire, direttamente o indirettamente, il disagio per non dire la paura di Scommessopoli. Come se tanti avvertissero inconsciamente o no la precarietà, l’inutilità di fare sport in un mondo dove le vie della truffa sono infinite.
Gian Paolo Ormezzano