09/09/2012
La mascherina di Assunta Legnante (Ansa).
A Londra 2012, per la prima volta, con Oscar Pistorius, lo spirito paralimpico ha soffiato alle Olimpiadi. Ma è vero anche il contrario, mai come prima lo spirito olimpico ha soffiato alle Paralimpiadi: nel senso che l'importante è partecipare, ma come alle Olimpiadi, si vuole vincere. E il pubblico, come mai prima, ha partecipato con numeri e intensità da Olimpiade. Si aprono nuove frontiere, ma nel bene e nel male si allargano le questioni da affrontare. Ne parliamo con Luca Pancalli, ex nuotatore paralimpico, oggi presidente del Comitato italiano paralimpico, già commissario della Federcalcio nel dopo Calciopoli.
Pancalli, è una nostra impressione o a Londra è davvero soffiato un vento nuovo?
«Non è un'impressione è una certezza. Londra 2012 è uno spartiacque nella storia del paralimpismo internazionale e a ricaduta anche italiano. Credo anzi che questa Paralimpiade segni una svolta anche nella storia dello sport internazionale. Per molti motivi, prima tra tutti la capacità del comitato organizzatore con Sebastian Coe di coinvolgere la città. C'è stato sempre il tutto esaurito, il loro motto era "Ispirare le generazioni". Credo che ci stiano riuscendo. Non è stata una partecipazione di sola presenza: gli spettatori hanno fatto sentire ai nostri atleti la considerazione di atleti».
Il mondo paralimpico è allegro e anche autoironico, penso alla mascherina di Diabolik di Assunta Legnante. C'è voglia di mostrarsi in modo diverso?
«Sì, credo che sia normale. Gli atleti paralimpici sono qui per vivere la loro esperienza di atleti. L'autoironia di Assunta, anche sulla sua disabilità, ci lancia un messaggio che va oltre llo sport: ci dice che lì si sta divertendo, che sta ringraziando lo sport perché l'ha fatta non solo tornare a vivere, ma tornare a vivere con il sorriso, con la mascherina di Diabolik».
C'è voglia di ribellarsi al politicamente corretto?
«Al politicamente corretto no, ma all'atteggiamento di quelli che ci vogliono dipingere sempre in senso solidaristico e pietistico sì. E' una ribellione verso i preconcetti, verso i pregiudizi, è una ribellione contro quelli che ci dipingono con l'aria triste, che non hanno ancora capito che lo sport abbatte le barriere. Credo che sia un messaggio culturale: un atleta paralimpico, come un atleta olimpico ama fare quello che fa e si diverte a stare lì a provare a dimostrare al mondo di essere il migliore sul palcoscenico più importante».
Annalisa Minetti in corsa con la guida (Ansa).
A proposito di barriere che si abbattono: Oscar Pistorius ha partecipato all'Olimpiade. Assunta Legnante ha vinto facendo una misura che vale il minimo per i Campionati europei di atletica del 2014 a Zurigo (normodotati). Le distanze si stanno riducendo?
«Il fatto che si valutino queste prestazioni dal punto di vista esclusivamente tecnico è un segno che si sono abbattute delle barriere. Per poter dire che il mondo paralimpico si stia avvicinando a entrare nell'olimpico altra storia dovrà passare. Anche perché io credo che il mondo paralimpico abbia una mission che va oltre la dimensione soltanto sportiva».
A di là del fatto che si realizzi un'osmosi tra mondo olimpico e paralimpico, i casi di Legnante e Pistorius hanno un valore per la vita quotidiana, simbolico quantomeno?
«Lo sport è elemento della società, non è avulso dalla politica dei Paesi e dei territori, è parte integrante della dimensione civile di un Paese, per cui quello che accade nella dimesione del confronto agonistico avrà un impatto anche sul vivere quotidiano per il solo fatto che in Italia si è seguita questa Paralimpiade come mai nella storia, grazie alle Tv e grazie a voi della carta stampata, e questo sta rimbalzando nelle case degli italiani. Se, come accade, gli amici di mio figlio mandano messaggi su facebook per fare i complimenti a Cecilia Camellini e conoscono i nomi e i risultati dei nostri atleti, vuol dire che stiamo riabilitando la società civile. Stiamo dimostrando che se le persone disabili sono messe in condizioni di esprimere le loro abilità in condizioni di pari opportunità, come lo sport sta dimostrando, le persone disabili diventano una risorsa. L'importante è che le opportunità vengano riconosciute a tutti, indipendentemente dal censo della famiglia».
Stiamo parlando dell'articolo 3 della Costituzione?
«Naturalmente, ma spesso dovremmo conoscerla meglio. Purtroppo a volte quello che è scritto non è adeguatamente attuato nella vita quotidiana. Bisognerebbe ricordarlo più spesso alla politica».
C'è chi ha scritto che anche l'esclusione dalla Paralimpiade di Fabrizio Macchi, dopo quella di Alex Schwazer dall'Olimpiade, è un segno di distanza che si riduce. Condivide?
«L'ho detto io per primo. Tutto perfettamente uguale, nel bene e nel male. Il mondo paralimpico non è affatto immune alla piaga del doping. Va detto che Fabrizio Macchi non è stato trovato positivo a un controllo antidoping, ma è stato escluso per aver violato una norma del codice etico antidoping che vieta agli atleti di avere rapporti con persone radiate con persone radiate per questioni legate al doping. Detto questo, Macchi ha sbagliato, perché chi veste la maglia azzurra ha il dovere di rispettare le regole».
Pistorius, dopo i 100 metri, ha sollevato un problema che forse è il problema: la regolarità delle protesi del suo avversario. Al di là del merito di quel caso. C'è bisogno di nuovi ragionamenti sulle regole?
«Assolutamente sì. Il movimento paralimpico internazionale si sta ponendo il problema dell'uso della tecnologia che va regolamentato di più e meglio e c'è anche un problema di classificazioni mediche: se non si fa attenzione le abilità residue rischiano di diventare un altro tipo di doping nel nostro mondo. Annalisa Minetti non vedente che corre legata alla guida e viene battuta da due ipovedenti che possono correre senza guida pone un problema. C'è in gioco la credibilità del movimento. Il mondo paralimpico ha il dovere di mettersi in discussione con grande umiltà ed evitare che le esigenze televisive e di spettacolarizzazione mortifichino la dignità degli atleti».
Luca Pancalli, presidente del Comitato italiano paralimpico. (Ansa).
Lo sport è abituato per sua natura a ragionare in temini di limiti. Che cos'è il limite e, soprattutto, dov'è?
«Il limite è quello che ciascuno di noi si pone sulla propria strada e sul proprio percorso di vita: è parte dell'essere umano. Se l'umanità non avesse cercato di superare i propri limiti non avrebbe fatto progressi».
L'eufemismo del politicamente corretto è una forma di rispetto o una forma di ipocrisia?
«Dipende da come viene utilizzato, a me non interessa che mi chiamino "persona disabile" o "diversamente abile", l'importante è che mi venga riconosciuta la pari dignità nelle cose che faccio. Una terminologia rispettosa può essere però l'anticamera del rispetto della pari dignità. Per questo uso "persona disabile" in contesti diversi dallo sport, nella scuola o nella riabilitazione, ma nello sport da 12 anni ho abolito ogni aggettivo che non sia "paralimpico". Ho sperimentato altro, ma il mondo paralimpico è il mio mondo, mi dà una soddisfazione enorme. L'unica sofferenza è vedere le gare di nuoto: mi manca da morire l'agonismo, pagherei per stare in acqua, ma ormai ho una certa età».
Elisa Chiari