08/04/2011
Abiola Bawara, con la maglia dell'Italia (Archivio Fip Ciamillo/Castoria)
Pare si sia trattato di una ventina di 'mentecatti' (copyright Dino Meneghin presidente della Federazione italiana pallacanestro), che dagli spalti dei playoff del campionato di basket femminile di A1 tra Comense e Sesto San Giovanni hanno apostrofato Abiola Wabara, azzurra di Sesto, al grido (scusate la classe, non è nostra) di "scimmia" e "negra di m.". Testuale. Non ha sentito nessuno, nell'immediato, neanche gli arbitri. Nessuno è stato sanzionato. Solo Abiola ha sentito, reagendo alla fine, nell'esasperazione, con un gestaccio, portando i riflettori sulla vicenda. All'uscita, preso atto di quello che non avevano "sentito", in tanti si sono dati la briga, nella miglior tradizione dello scaricabarile, di sostenere che i tifosi della pallacanestro femminile non c'entravano: tutta colpa di infiltrati dal calcio e dalla pallacanestro maschile.
Domanda: chiamarsi fuori basta? Basta che sia sempre colpa degli altri per non isolare questi altri?
E se invece fossimo noi tutti, se non d'accordo, indifferenti a questo gioco? Il contesto del resto aiuta. Apparteniamo a una Repubblica, la cui Costituzione sanziona le discriminazioni in base a molti parametri tra cui la razza, ma con un ministro della medesima Repubblica che pensa di risolvere il problema dell'immigrazione, urgente a Lampedusa, sintetizzando il proprio pensiero nell'espressione aulica: "foera d'i ball", la cui traduzione italiana riesce intuitiva anche ai non padani. Se chi esprime il concetto in questi termini ci rappresenta, un motivo ci sarà.
E infatti il 25 marzo sugli spalti di una partita di calcio tra esordienti (categoria che corrisponde ai 12 anni) alcuni genitori hanno preso a insultare con improperi a sfondo razziale un avversario dei loro figli in campo. La società è stata multata e chi ne risponde invece di incassare con tante scuse ha minimizzato annunciando ricorsi.
Tutto si tiene. Esempi edificanti.
Sono in tanti a credere che l'integrazione sia una scommessa difficile da vincere. I Paesi che hanno affrontato il tema prima di noi lo possono testimoniare. Ma l'alternativa non esiste, la scommessa opposta è già perduta nel momento in cui i nostri figli hanno compagni di banco con radici d'altri mondi.
Alzare, diffondendo sentimenti di reciproco sospetto, barriere significa avere la certezza di un mondo peggiore in cui farli crescere: nella migliore delle ipotesi un mondo votato allo scontro. Provare a smontare le barriere man mano che rischiano di alzarsi un mattone alla volta, contando sulla naturalezza che i bambini hanno, significa la speranza di lasciare loro un mondo pacifico in cui convivere. Tra una certezza negativa e una speranza positiva, tendenzialmente scommetteremmo sulla seconda, anche senza scomodare il Vangelo. Scomodandolo di più. Anche perché molti dei bambini che condividono il banco con i nostri non hanno già più un "foera" dove andare: sono nati qui, parlano la nostra lingua, sono figli nostri.
Elisa Chiari