16/04/2011
Fernando Alonso, il pilota spagnolo della Ferrari.
La Roma intesa come società e squadra di calcio è dunque diventata americana anzi statunitense anzi italo-americana, visto che Thomas DiBenedetto, sessantenne di origini nostrane ma di lingua inglese e modo di pensare bostoniano, ha come partner persistente l’Unicredit che ha prestato soldi al club giallorosso. Però è lui il gran capo, lui fiancheggiato dai suoi soci, oriundi e no, esperti soprattutto di basket e di baseball Usa. Lui che ha sì aderito al rituale quasi sempre fasullo della sciarpa con i colori sociali, ma che ha chiarito subito che ritiene la Roma un affare.
Insomma, investe nell’insieme qualcosa come 200 milioni di euro, comprensivi di primi acquisti per il rafforzamento della compagine, ma vuole e deve far soldi con il club che ha falcidiato tante illustri finanze capitoline e italiane, comprese ultimamente quelle della famiglia Sensi. Far soldi, la regola ormai anche morale dello sport professionistico, specialmente del grande grosso grasso sport-business delle sue parti.
Si preparano per il nostro calcio professionistico e intanto paternalistico, il calcio dei grandi dirigenti ricchi e passionali, tempi nuovi? Sicuramente sì. DiBenedetto con le sue idee e la sua schiera di avvocati dovrebbe proprio terremotare il nostro ambiente, tifosi e giocatori giallorossi compresi, anzi loro in prima fila. Per anni il Palazzo ha fatto finta di volere un calcio seriamente, funzionalmente modellato sull’industria. Ora nelle sue stanze ne ospita uno modellato sul commercio, che è lo smercio dei prodotti dell’industria.
L’esperimento giallorosso è importantissimo, né valgono i precedenti stranieri, nell’Inghilterra che non è l’Italia e sa come opporre o quanto meno proteggere, nel suo mondo del pallone, la propria nobiltà calcistica sia di fronte al faraonismo arabo che all’affarismo americano. Sarà comunque un match interessante: DiBenedetto con la Roma "contro" Roma e il calcio italiano, con le sue abitudini lente e pitonesche, le sue finte mollezze, le sue assurde repenti e fasulle durezze, le sue pazzie costanti, spessissimo volute, e la sua logica ultima e profonda che è quella di ubriacare, stordire le masse per modellarle e piegarle a comportamenti assortiti, anche se non soprattutto politici.
DiBenedetto and Company vogliono con la Roma fare soldi di fisso, a lungo, secondo una ferrea esplicita programmazione, e non pensano assolutamente di usare il club e la sua presidenza ai fini della coltivazione di favori spiccioli o sotterranei, magari presso il mondo della politica ancora prima che degli affari. La curiosità spicciola è per chi DiBenedetto sceglierà per occupare il campo, dall’allenatore (Ancelotti?) ai giocatori (non sa nulla di calcio e questo può essere un vantaggio, comunque chissà se si appoggerà a vecchie volpi o a nuovi gatti), l’attesa forte deve essere per un grande vento anzi evento nuovo. Comodo pensare che allo stadio si venderanno più popcorn: ma la scommessa vera degli impresari bostoniani è quella di americanizzare il nostro sport.
Il quale nostro sport si sta comunque consegnando sempre più al mondo estero e dunque anche esterno, quando non è questo mondo a invaderci, a farci suoi. La grande nostra nuotatrice Federica Pellegrini si appoggia ad un team tecnico francese, che l’ha portata a nuotare a Parigi e ora la seguirà in Italia. I nostri migliori rugbysti sono sempre più sparpagliati nel campionato francese o concentrati nella Celtic League che è comunque un palcoscenico prevalentemente britannico, ancorché non inglese. La Ferrari continua a non trovare un sedile per un pilota italiano. I nostri residui ciclisti pedalano sempre più con contratti presso squadre straniere. I nostri cestisti più bravi vanno a giocare nell’Nba americana ed è già tanto se si rendono disponibili per la squadra azzurra, in uno sport poi dove i nostri allenatori lavorano sempre più e magari sempre meglio all’estero. Nel motociclismo la Ducati italiana si dà all’italiano Valentino Rossi, che lascia i bolidi giapponesi ma non vince più.
Globalizzazione è una bellissima affascinante parola, ma nel nostro sport fa ormai troppo spesso rrima con invasione, occupazione, preoccupazione.
Gian Paolo Ormezzano