25/02/2012
L'italiano Quintin Geldenhuys durante il match con l'Inghilterra nel torneo "Sei Nazioni" allo Stadio Olimpico di Roma (foto Reuters).
Il più affascinante ancorché non (ancora) glorioso mistero dello sport italiano è quello del rugby. Parliamo di affascinante misteriosità psicologica, ché per il resto ci sono nel nostro povero ricchissimo sport ben altri misteri variegati, assortiti ed enormi, come ad esempio quello del calcio tutto pulito oppure tutto sporco, quello della televisione che chissà se fa crescere o inaridire lo sport, quello di internet che chissà cosa sta per combinare nello sport, sino a risalire a quello dell’italiano inteso come bipede pensante: se è davvero sportivo oppure no. Ma restiamo al rugby, qui per ora basta e avanza.
Dunque accade in Italia – non nella preistoria, ma pochi giorni fa - che
il rugby chiami a Roma, sotto la neve “tragica” per la capitale,
spostandosi dallo stadio Flaminio all’Olimpico, 70.000 spettatori per un
incontro che il pronostico ci sbarra, contro l’Inghilterra. Accade che
si perda, giocando bene e conducendo persino il punteggio per molti
minuti. Si perde dunque e accade non solo che nessuno sfascia niente,
nessuno accusa nessuno, ma che ci sono applausi anche per il nuovo citì
azzurro Brunel francese, e che fanno festa in comune, giocatori e
tifosi, italiani e inglesi. Accade che si dà subito l’appuntamento ai
nostri tifosi inossidabili per il match di sabato 25, in Irlanda, contro
una Nazionale (sarebbe da definire delle Irlande) che da sempre
rappresenta e unisce entità locali spesso in conflitto anche cruento,
unisce Belfast a Dublino, unisce il Nord al Sud, la monarchia del Regno
Unito alla repubblica dell’Eire, i protestanti ai cattolici: altro
miracolo (o mistero) del rugby.
Ancora una fase dell'ultima partita contro l'Inghilterra (foto Ansa).
Si pensi ad altri sport: pallavolo, basket, tennis, sci, boxe, tanto per
fare i primi nomi. Hanno da noi popolarità soltanto in caso di
vittorie, e importanti. Il campione che smette di vincere è subito un
brocco, la squadra che non comincia a vincere è presto un’impresa
fallimentare, se vince e non insiste è un caso fortunato. Tristezze da
meditare, da studiare.
Avanti. Il rugby è, si dice, sport per delinquenti giocato da
gentiluomini (molti i giocatori laureati), il calcio il contrario
(pochi i pienamente alfabetizzati). Nel rugby l’arbitro è un essere
superiore, se dice che è bianco nessuno si permette di obiettare. Nel
rugby non è che si capisca molto di tante azioni con ammucchiate
paurose, ma non si bisticcia con la moviola, se non per decisioni
estreme, rarissime.
E poi c’è questa sfaccettatura massima, speciale per noi italiani, del
mistero: nel rugby non vinciamo quasi mai, però la nostra buona gente
della palla ovale è sempre contenta, ed è escluso che si tratti di
migliaia e migliaia di deficienti, stranamente diversi da quei loro
connazionali i quali, già detto, sono ferocemente critici verso uno
sport se non significa successi. Siamo stati ammessi a fatica (anno
2000) nel torneo europeo che era delle cinque e ora è delle sei nazioni,
abbiamo esordito battendo la Scozia detentrice del trofeo (nessuna
nostra meta, tutti punti segnati calciando la palla da Dominguez,
argentino italianizzato), ma poi sono state davvero tante sconfitte, e
anche umilianti: per gli ultimi in classifica il “premio” è il cucchiaio
di legno, attribuzione di origine universitaria, serve a rimestare
povere minestre, ne abbiamo una raccolta.
I rugbysti francesi durante un allenamento (foto Reuters).
Di regola Francia,
Inghilterra, Galles (fortissimo, e i gallesi sono quattro gatti) e anche
Irlanda e Scozia ci strapazzano. Ma all’Olimpico innevato andiamo in
settantamila.
Si capisce che adesso ci sono anche dei pericoli, qui nel Bel Paese. I
nostri rugbysti forti guadagnano bene, presto guadagneranno magari
troppo bene e magari si ammaleranno di divismo: ma forse esageriamo in
pessimismo, male abituati dal calcio. C’è in effetti un professionismo
ormai diffuso, ma ancora controllabile, c’è popolarità già buona, ma non
da sbornia: e Parisse, capitano azzurro, gioca a Parigi, è legato a
una miss Europa, ma niente gossip.
Ora la pubblicità, gli sponsor, la televisione stanno scoprendo questi
omoni colti, questi giganti buoni: aiuto, da noi in materia si può
sbracare subito. C’è persino una nascente nostra moda-rugby per uomini
(apostolo per donne fu il grande stilista Courrège, uno di quel
Sud-Ovest francese che ama la palla ovale, con le sue creazioni a
strisce orizzontali, appunto come le maglie dei rugbysti). T-shirts,
giubbe, lozioni “da macho”, capellonismo e barbudismo (il modello è
Chabal, giocatore-orco di Francia).
Andiamo ancora avanti. Sin troppo enfatizzato da noi il terzo tempo,
quando a partita finita si beve birra in gruppo, e ci sono abbracci fra
tipi che pochi minuti prima si pestavano: provato nel calcio, una
comica. Il rugby in assoluto, ma specialmente nel relativo dello sport
italiota, non è tutto perfetto, e dunque e dovunque e comunque rischia
di guastarsi. Ma per ora tiene bene, in Italia e altrove è pineta, isola
felice, posto ottimale per rispettare le regole, per esercitare la
lotta onesta.
E pazienza se ancora troppi nel Bel Paese pensano che il rugby sia sport
vecchio, tarlato dalla sua stessa lealtà anacronistica, e lo ritengono
nato prima del calcio: in realtà nel 1823 si giocava, e da tanto tempo, a
pallone con i piedi in tutta l’Inghilterra, quando nella cittadina di
Rugby un certo Ellis per vivacizzare il football prese la sfera sotto il
braccio e corse inseguito da compagni e avversari, inventando, come
recita sul posto una targa, un nuovo gioco (la palla era rotonda, furono
i francesi ad ovalizzarla per renderne facile il portarla e difficili i
rimbalzi).
Gian Paolo Ormezzano