30/09/2012
Michael Schumacher durante una partita di calcio di beneficenza nel 2008.
Qualche giorno fa la Mercedes ha licenziato Michael
Schumacher. Il prossimo Mondiale partirà senza di lui. Una notizia passata
senza quasi clamore, come se fosse stato lasciato a piedi uno dei tanti. E
questo quasi silenzio è più significativo di molte parole. Ci dice che Michael
Schumacher, quello che macinava gran Premi, Mondiali, a volte anche avversari,
non era più davvero in F1 dal 2006 quando se n’era ritirato vincitore. Quello
che abbiamo visto in questi tre anni è stato un altro pilota, cui, dopo il clamore del rientro, ci
siamo riabituati fino a non notarlo quasi più. Un caso, il suo, che dovrebbe portare, se lo sport fosse avvezzo alla riflessione, a riflettere di più su uno dei problemi che non risparmia, in quel mondo, nessuno. Ancora meno i migliori.
Ogni
campione vince avendo dentro una certezza: la vita al vertice dello sport ha
una data di scadenza. Tutti lo sanno, ma i più nel subconscio rimuovono, prima
dell’appuntamento reale, l’appuntamento mentale con l’idea di dover, ancora
giovani e ai vertici, lasciare la cosa che definisce il loro posto nel mondo,
anzi in cima al mondo. Il più delle volte lasciano per saturazione, stanchi di
viaggi forzati, limitati a campi di gara e aeroporti, stanchi di dover vincere
sempre o per il timore di non saper vincere più. Restare al vertice costa,
anche se spesso il compenso vale eccome la candela.
A un certo punto si
desidera la normalità, senza sapere più bene di che si tratti, senza sapere che
non è solo calma ma anche grigiore, noia, difficoltà a inventarsi una vita per
cui gli altri, i comuni mortali, si preparano da sempre. Il più delle volte si lascia lo sport
senza un’idea di quello che si farà dopo, quando è il caso accontentandosi
della consapevolezza di aver guadagnato abbastanza - ma non tutti possono contare su questa certezza -, altre volte semplicemente
rinviando all’ultimo i conti con quel passaggio chiave, sperando che basti
dedicarsi alla famiglia per dare senso a un ritiro infinitamente anticipato
rispetto alla quotidianità dei normali.
All’inizio sembra facile avere tanto
tempo davanti e la libertà di gestirlo, e invece per chi è stato campione i
riflettori che si spengono sono spesso un buco nero, di cui il ritorno
all’agonismo dopo un periodo di inattività è un effetto collaterale, nonché
spesso un buco nell’acqua. Sono pochi i ritorni vincenti. E comunque sono solo un modo di
rinviare il problema cruciale dello sport di vertice: lasciarlo senza vivere di
ricordi. Forse è anche un problema morale degli adulti che ruotano attorno ai
giovani sportivi: insegnano loro a focalizzarsi sul risultato, com’è giusto, ma
spesso dimenticano di accompagnarli a gestire l’ignoto che li attende alla fine
del giro d’onore.
Elisa Chiari