Calcio: non passa... l'italiano

Nella nostra Serie A più di metà dei calciatori che scendono in campo sono stranieri. Le conseguenze sui bilanci e sulle nazionali.

05/12/2011
Juan e Jovetic, due degli stranieri di Roma e Fiorentina.
Juan e Jovetic, due degli stranieri di Roma e Fiorentina.

Il primo sorpasso è roba già datata, ancorchè abbastanza recente, oltre che storico. Roba del 21 settembre scorso, in occasione di un turno infrasettimanale. Scorsi i tabellini, analizzate le nazionalità, emerse quel che prima o poi si sapeva sarebbe accaduto: a quel punto del campionato, erano più i calciatori stranieri impiegati dalle squadre di serie A di quelli italiani. Non era mai successo, nel nostro calcio: un torneo con più giocatori importati che autoctoni, una specie di rivoluzione, a coronare una crescita nei numeri che durava ormai da un pò d’anni.

     Cifre di quella giornata, per certi versi storica: 50,2% per cento del totale dei calciatori arrivati dall’estero, il resto cresciuto in casa. Da allora, sono trascorsi un paio di mesi e mezzo: la tendenza non è cambiata, se è vero come è vero che la maggioranza resta straniera, perfino con numeri in leggera lievitazioni (la percentuale è di poco superiore al 51 per cento). Normale, del resto. Perché certi dati non sono altro che la conseguenza di altri. In campo, più stranieri che italiani. Anche perché i calciatori d’importazione hanno quasi raggiunto la metà del totale anche nelle rose delle squadra di serie A. In questo caso, 52,5% di italiani e 47,5% di stranieri.

     Ma in rosa, si sa, i club hanno tanti ragazzi (italiani) delle giovanili, per i quali anche una sola presenza è spesso pura utopia (o, comunque, un evento molto raro). Consequenziale, quindi, che poi ad andare in campo siano più gli stranieri. Un tempo, era il campionato più bello del mondo. Ora sta diventando sempre più esterofilo, sebbene non il più esterofilo d’Europa (senza neanche considerare quello cipriota che è da record per numero di stranieri, la Premier League inglese il sorpasso l’ha già sperimentato da un po’ d’anni), con buona pace di Cesare Prandelli, che per la sua nazionale ha una base sempre meno ampia su cui fare affidamento, e di Ciro Ferrara, che per la sua under 21 invece è costretto ad affidarsi ad altri campionati (soprattutto quello di B) che non la serie A.

     Del resto, quella dell’invasione straniera è un’onda lunga che si trascina da molte stagioni. Numeri in costante crescita, tendenza ormai ben consolidata. In poco più di un lustro si era passati da 168 a 255: il primo dato riferito alla stagione 2004-05 (la prima caratterizzata dalla serie A a 20 squadre), il secondo all’annata scorsa, quella chiusa nel maggio di quest’anno. Nello stesso lasso di tempo, l’incidenza era salita dal 31,4% al 47,2%. E se fino alla scorsa primavera ci si era andati solo vicino al traguardo del 50 per cento, era ben chiaro che non ci sarebbe stato da attendere molto tempo prima che quel traguardo sarebbe stato tagliato: obiettivo raggiunto già a inizio della stagione in corso.

     Poi, si sa, ci sono club più esterofili e altri meno. Nel primo caso, l’Inter fa da portabandiera, come accade ormai da anni. Ma altre squadra la seguono a ruota: se il club nerazzurro è irraggiungibile, altri come Udinese, Lazio, Napoli, Catania, Genoa, Palermo e Roma arrivano comunque a superare la quota dei 10 stranieri impiegati. Sul fronte opposto, il club più autarchico resta l’Atalanta (come da tradizione di una delle squadre che più puntano sul vivaio), davanti a Siena e Juventus.

     La tendenza è chiara: si punta sugli stranieri più che a crescere i campioni del futuro. Numeri esemplari, anche in questo caso: in serie A quest’anno, tra i debuttanti c’è un italiano ogni 4 stranieri. E’ il calcio moderno, che pare aver sempre fretta e non voler mai aspettare.                                                                                        

Ivo Romano
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