Quando in campo scende la realtà

Quando la realtà fa irruzione nello sport non sono quasi mai buone notizie. Ma non basta crescere i campioni in un mondo a parte perché siano modelli credibili, anzi.

03/04/2012
L'allenatore sprona un bambino.
L'allenatore sprona un bambino.

Lo sport fa da sempre, ma recentemente molto di più, del suo meglio per stare fuori dal mondo: giornali lo stretto necessario per le pagelle sulla partita, libri scarsi e di modesto respiro, viaggi limitati alle esigenze tecniche, per lo più circoscritti al percorso aeroporto, campo d’allenamento stadio e ritorno. Se chiedi a uno sportivo che libro abbia sul comodino, il più delle volte ti guarda smarrito, se proprio va benissimo ripesca un’antica lettura di Bambarén, Coelho, Dan Brown. Ci sono le eccezioni ovviamente, ma tali restano.

Twittano e scrivono su Facebook i campioni, ma sempre cose ben sorvegliate da agenti, sponsor, società, uffici stampa, lo stesso regolamento olimpico, con l’obiettivo pur sacrosanto e costosissimo della sicurezza, fa del suo meglio per anestetizzare la libertà di espressione. Ma l’impressione è che gli sportivi nella bolla stiano bene: è utile al risultato. Se non hai distrazioni né altri interessi, facilmente sei focalizzato solo sulla vittoria. E gli interessi a un ragazzo difficilmente sbocciano se nessun adulto attorno ne accende la scintilla. E gli adulti attorno, probabilmente, evitano, per limiti propri, ma anche per non distrarli dall’obiettivo, che è vincere, vincere e ancora vincere. Poi a volte succede che i campioni crescendo diventino saggi e si accorgano come Josefa Idem «di aver cominciato a vincere quando vincere ha smesso di essere lo scopo della vita».

Il procuratore di Bari Laudati con il colonnello Iacobelli.
Il procuratore di Bari Laudati con il colonnello Iacobelli.

Altre volte però accade che la vita entri a gamba a tesa nello sport e quasi sempre ci entra dalla porta peggiore, perché lo sport – con tutti gli sforzi che fa per darsi l’immagine di una verginità immacolata ma artificiale – non riesce a chiudere fuori da sé le storture del mondo. E checché ne  dica Giancarlo Abete non ha anticorpi per difendersene, avendo poca cultura e scarsa capacità di porsi problematiche men che elementari.

E infatti vediamo il calciatore che fa, per denaro, un autogol al proprio portiere nella partita più importante della stagione: la dignità svenduta al prezzo di 230.000 euro. Distorsioni certo. Ma il malessere che non risparmia nulla,  non può risparmiare lo sport: sarebbe da ingenui o da complici negarlo. Come non ha risparmiato il portiere della nazionale olimpica palestinese, arrestato per aver partecipato a un attacco armato con Hamas. Probabilmente l’idealità distorta di questo caso e l’assenza totale di idealità del calciatore venduto sono facce antitetiche della stessa inconsapevolezza, del fatto di non capire che la maglia che si veste è una vetrina e che portarla è una responsabilità che mette in gioco la persona nel profondo: si tratta di non capire che avrebbe più senso servirsi della visibilità che la maglia regala per portare messaggi seri di dialogo, di regole, di dignità, di diritti, di pace, ma per portarli credibilmente bisognerebbe sapere bene di che cosa di parla, avere un’idea propria documentata e sostenibile a suon di argomenti. Non basta accettare di farsi testimonial di una campagna pensata da altri su cui si mette solo la faccia, senza preoccuparsi della coerenza che comporta. 

Ma lo sport professionistico di oggi cresce campioni senza preoccuparsi della loro formazione di persone, salvo questioni di facciata. Ci sono calciatori di vertice – e fa specie che non sempre siano i più ignoranti – che hanno accettato di firmare in contratto una clausola che impedisce loro di parlare in pubblico di qualunque argomento senza il nullaosta della società, una sorta di bavaglio preventivo che è cosa diversa dall’essere consapevoli di non poter usare la visibilità connessa alla maglia per dare messaggi negativi o pericolosi. È solo un altro dei tanti modi, anche per le società, di darsi un alibi per  non vedere, non sentire, non sapere.

Bambini festeggiano i calciatori dell'Italia.
Bambini festeggiano i calciatori dell'Italia.

In questi giorni fa discutere l’opportunità di una visita della nazionale di calcio ad Auschwitz durante gli Europei, un’idea lanciata dall’esterno. Positiva per carità, ma la domanda vera è un’altra: perché non si sente mai la voce spontanea di un calciatore che dica di avvertire l’esigenza, andando in Polonia a giocare, magari dopo aver giocato e vinto o perso, di visitare Auschwitz per avere qualcosa da raccontare ai suoi figli, visto che ha la fortuna di girare il mondo e di guadagnare a sufficienza per restare nei posti qualche giorno per guardarsi intorno? I calciatori sono ragazzi è vero, ma i più sono già padri di famiglia e invece tendiamo a parlarne sempre come se si trattasse di undicenni in gita scolastica.

Sarà un caso ma quando chiedi conto agli sportivi del mondo che hanno visto, rispondono quasi sempre: «Solo stadi e aeroporti». Se gli atleti delle discipline povere e di grande fatica, hanno la valida giustificazione del tempo che manca e dei soldi che scarseggiano, i calciatori di vertice non hanno questo alibi. Eppure che si sappia qundo partono per il ritiro, anche se hanno un Ct che ci tiene e che prova a crescerli anche come persone, difficilmente verrebbe loro in mente, a 25 anni dalla morte di Primo Levi, di mettere Se questo è un uomo in valigia, per sfangare le tante ore vuote.  Ma forse è soltanto sbagliato pretendere dallo sport l’etica e la cultura che non chiediamo ad altre più alte espressioni del mondo. Restano però due problemi.
1) I  bambini ammirano gli atleti e hanno diritto a modelli migliori.
2) Lo sport è un gioco che vive di un sistema di regole: senze regole muore.

Elisa Chiari
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