08/09/2012
Barack Obama saluta un gruppo di sostenitori (foto del servizio: Reuters).
“Dalla prima volta che ho parlato a questa convention i tempi sono cambiati, … e sono cambiato anch’io” ha detto Barack Obama durante il discorso di accettazione della nomination. Il pensiero dei 20,000 di Charlotte (dovevano essere 60,000 allo stadio ma anche qui il tempo ci ha messo lo zampino) e dell’America che lo guarda in TV va immediatamente al grigio, ormai evidente e totale, dei suoi capelli – corvini a Boston 2004 durante il suo esordio sulla scena nazionale a cui si riferisce, ma anche 4 anni dopo al Grant Park di Chicago nell’indimenticabile notte della vittoria elettorale - ennesima conferma che l’uomo piu’potente del mondo è spesso anche uno dei più stressati.
Poi ha aggiunto: “Oggi non sono più un semplice candidato: sono il Presidente!”. E quando il boato della platea comincia a scemare, lui da presidente parla – anzi da presidente aveva già parlato sin dal primo minuto, subito dopo i ringraziamenti e le immancabili dichiarazioni d’amore a moglie, figlie, e vice presidente. (In questo gli americani – democratici, repubblicani o indipendenti che siano - sono davvero tutti uguali).
“Presidenziale” infatti è l’aggettivo più usato da analisti e commentatori che da affollano l’etere e il web, tutti – o quasi – d’accordo sul fatto che, dopo questi 4 anni che avrebbero fatto imbiancare i capelli a chiunque, l’idealismo di “Hope and Change” (speranza e cambiamento) che nella campagna del 2008 aveva infiammato le folle di fedelissimi e non ha lasciato il posto a un pragmatismo magari meno entusiasmante ma di certo più adatto a un capo di Stato intento a trascinare il Paese fuori dalla peggior crisi economica dopo quella del ‘29.
Poco male se il discorso diventa una sorta di lista della spesa di cosa è stato fatto nel difficile quadriennio appena trascorso e cosa fare nel prossimo – non meno difficile secondo Obamache afferma: “La nostra strada è lunga e piena di ostacoli ma porta più lontano di quella deinostri oppositori. Quel che conta è percorrerla tutti insieme senza lasciare indietro nessuno.”Di fatto la “lista” di Obama è una risposta punto per punto alla ricette - piuttosto vaghe per la verità – sciorinate dai Repubblicani a Tampa la settimana passata: occupazione innazitutto, in cui dopo aver “salvato” con un'nezione di fondi pubblici il settore automobilistico promette1 milione (non 12 come Romney) di posti di lavoro nelle manifatture, con l’occhio rivolto agli Stati, industriali e politicamente ancora indecisi, del Michigan e dell’Ohio.
Poi sanità, cavallo di battaglia di Obama e terreno di scontro durissimo, con un riforma che garantirebbe copertura per tutti ottenuta solo in parte e che i repubblicani minacciano di abolire in caso di vittoria e sostituire con un sistema di voucher; istruzione, con agevolazioni sui prestiti per le sempre più costose università; tasse, e qui le differenze cogli avversari diventano nettissime, vanno aumentate secondo Obama, ma solo per chi guadagna più di un quarto di milione l’anno, e non tagliate a imprese e multinazionali come invece suggerisce Romney al fine di stimolare un presunto aumento di posti di lavoro.
“Questa elezione è un referendum sul ruolo del governo nella vita dei cittadini”, ha acutamente sintetizzato Gloria Bergeron, fine analista della CNN. E in fondo, al netto di tutta la retorica sui valori morali, la grandezza dell’America, il coraggio delle truppe, il lavoro a testa bassa dei nonni poveri, l’amore delle mogli e quant’altro, è esattamente cosi’ .
Quest’anno gli americani sono chiamati a scegliere tra un governo che li aiuta magari controllandoli un pò oppure che li lascia liberi, del tutto, o quasi, di scegliere cosa è meglio per loro ma anche, in caso di scelte sbagliate, liberi di fare la fame. La crisi acutizza le “visioni” come le chiamano qui, le filosofie profondamente diverse riguardo il “peso” dello stato che da sempre differenziano tra loro i due partiti.
In verità c’è stato anche qualche accenno alla politica internazionale, campo in cui Romney e il suo vice Ryan sono “nuovi” ha detto Obama che con tono insolitamente “muscolare” per un Democratico ha rivendicato l’avvenuto ritiro dall’Iraq, quello già programmato dall’Afghanistan nel 2014 e soprattutto l’uccisione di Osama Bin Laden (riferimento anche troppo ricorrente durante tutta la convention) come successi suoi e della sua amministrazione.
Barack Obama e Joseph Biden salutano i delegati alla convention democratica.
Ma quest’anno non sarà l’estero a determinare il prossimo inquilino della Casa Bianca.I democratici hanno capito da subito che stavolta conta l’economia e l’intervento, o meno, dello stato per migliorarla, e su questo hanno insistito per tutta la durata della convention. Tutti gli oratori “preparatori” al discorso del presidente in carica, dal sindaco ispanico di SanAntonio Julian Castro, al sempre carismatico ex presidente Bill Clinton (che i democratici, se la Costituzione glielo permettesse, eleggerebbero volentieri di nuovo), hanno battuto su questo punto.
Cooperazione, inclusione, aiutare chi sta peggio oggi per stare tutti un pò meglio domani. Discorsi “di sinistra” insomma, ovviamente nel senso americano del termine,cioè nei limiti imposti da una cultura politica generalizzata al cui confronto le proposte di molte normalissime e moderate coalizioni di centro-sinistra Europee sembrano “socialismo reale”. “Se il governo non può fare tutto, non è detto che non debba far niente”, ha tuonato Obama nel cuore del suo discorso verso la metà dei suoi (soli) 38 “minuti di gloria” (Clinton due sere fa se ne era presi 48). E’ una risposta chiara alla retorica antistatlista repubblicana ma anche una promessa, quella di continuare a utilizzare le risorse pubbliche – come ha già fattoin questi 4 anni – per stimolare i settori privati.
Ma i “sacrifici condivisi,” di cui Obama e i suoi hanno parlato per 3 giorni consecutivi non hanno ancora portato alla seconda parte del mantra, quella “prosperità condivisa” che stenta ad arrivare, con una classe media strangolata da lavori che si perdono e non si trovano, case che ormai valgono meno del mutuo confiscate dalle banche per morosità, benzina sempre più cara, pensioni sempre più a rischio. In fondo alla fine del mese i conti li fanno tutti: anche le donne, i gay, i latini, i neri, gli immigrati e tutte quelle categorie che Obama in un modo o nell’altro ha aiutato e che adesso corteggia nei discorsi ufficiali.
E i conti, purtroppo ancora non tornano.“State meglio adesso di 4 anni fa?” aveva chiesto Romney riprendendo Ronald Reagan. Nel1980, la risposta in molti casi era “no”e il ripetere questa domanda retorica fino alla noia lo aiutò a sconfiggere l’allora presidente in carica Jimmy Carter. Oggi, nel settembre 2012, con i dati sull’occupazione appena usciti che parlano di 38 mila posti in meno creati in agosto rispetto al mese precedente e una disoccupazione che, anche se in lieve calo, rimane sopra l’8% nazionale, la risposta è ancora negativa: in questo senso Obama ha davanti a se due mesi in salita nei quali (specie nei tre dibattiti previsti, dove finalmente i programmi e i numeri prenderanno il posto della retorica) dovrà dimostrare che, e soprattutto come, le cose cambieranno da qui al 2016 se eletto di nuovo.
Stefano Salimbeni