07/09/2012
Mitt Romney in un momento della sua campagna elettorale.
Il governatore Deval Patrick, il senatore John Kerry (sconfitto nel 2004 da Bush) e la candidata al senato Elizabeth Warren hanno, a parte la tessera del partito Democratico, due cose in comune: tutti e tre figurano tra gli oratori del “prime time” alla convention di Charlotte, e tutti e tre vengono dal Massachusetts.
Dunque il piccolo stato del nordest, difficile da pronunciare per gli stranieri e da scrivere anche per gli americani, conferma il suo ruolo di crocevia della politica USA – imprescindibile specie e soprattutto per chi ha ambizioni presidenziali.
Quattro anni fa, per fare un esempio recente, il colpo di coda che permise a Barack Obama di sconfiggere sul filo di lana Hillary Clinton alle primarie, parti’ proprio da Boston, capitale dello Stato, grazie all’”endorsement” (cioe’ l’appoggio pubblico dichiarato prima di un elezione) dell’allora senatore Ted Kennedy.
Questo staterello poco piu’ grande della Sicilia con appena 6 milioni e mezzo di abitanti deve, in parte, il suo sproporzionato peso politico proprio alla famiglia Kennedy: Edward detto Ted, scomparso nell’agosto 2009 e prima di lui gli altrettanto famosi e potenti fratelli maggiori John Fitzgerald e Robert (che qui, da sempre, chiamano tutti “Jack” e “Bob”).
E tra i politici che al contrario dei Kennedy non hanno la fortuna di nascere a Boston, citta’ con la concentrazione di college e universita’ piu’ alta del mondo, molti ci vengono quantomeno a studiare. E qualcuno ci si ferma anche: Mitt Romney, ad esempio dal Michigan venne qui per prendere un doppio master (Legge e Economia ad Harvard) e qui rimase, grazie a quell’indotto industriale, medico-sanitario e finanziario che ruota attorno a atenei e centri di ricerca permettendo da sempre a questa citta’ di schivare o quantomeno attutire le crisi. Terreno fertile, dunque, per fondare la sua Bain Capital, societa’ di investimenti e intermediazione che negli anni ha reso lui, e i suoi soci, miliardari; un po’ meno, vista la storica connotazione di roccaforte ‘liberal’, per una carriera politica nelle file dei Repubblicani.
Cio’ nonostante, dello stato che (proprio come chi scrive) da anni chiama ‘casa’, Romney e’ stato addirittura governatore, in verita’ anche abbastanza popolare. Ma i motivi di quel gradimento – tra i principali la riforma sanitaria che garantisce copertura assicurativa per tutti – furono ottenuti scendendo localmente a inevitabili compromessi in uno Stato che piu’ Democratico non si puo’, e che adesso, sulla scena nazionale, diventano un boomerang.
Non tanto nei discorsi degli oppositori (due sere fa il governatore in carica Patrick ha parlato di ‘disastro’ durante l’amministrazione Romney, ma dipingere un Massachusetts in crisi a meta’ degli anni duemila e’ convincente quanto raccontare che da giovani Romney e la moglie erano poveri) quanto nella percezione delle sue inversioni di rotta. Tanto per cominciare, la riforma sanitaria passata da Obama, che i repubblicani ripetono, a mo’ di mantra, di voler abolire, non e’ altro che un’estensione su scala nazionale di quella che in Massachusetts porta il suo nome. Poi tutto il conservatorismo, sbandierato in questi giorni sui temi sociali, primo fra tutti l’aborto via via fino alle staminali e il matrimonio gay, lontano dalle posizioni moderate - indispensabili alla sopravvivenza di chiunque nella capitale nazionale della sinistra USA - dichiarate negli anni di Boston.
Insomma, non solo Romney paradossalmente non puo’ contare sul “suo” stato per le elezioni di Novembre (qui si voto’ Democratico anche quando gli altri 49 stati votarono Repubblicano e sempre qui Obama vinse 4 anni fa con uno scarto record del 25 percento) ma nemmeno per possibili riferimenti a passati successi politici. Le voci da Boston, gli sono dannose, tutte, anche e soprattutto quelle lusinghiere, perche’ in fondo non fanno che accentuare i dubbi sulla sua coerenza.
Di fatto, il suo quartier generale, un edificio dall’aspetto anonimo (con una gran vista sul porto pero’) non ha ne insegne ne bandiere – il che in una nazione dove le stelle e le strisce si vedono ovunque e’ indicativo di quanta poca polvere l’ex governatore voglia alzare in città. E durante tutta la convention Repubblicana di Tampa, sia lui che i suoi, si sono guardati bene perfino dal pronunciare il nome dello stato, se non in sparuti accenni secondari.
Tuttavia – e c’era da scommetterci - ci hanno pensato i Democratici, a Charlotte la settimana dopo, schierando ben tre “bostoniani”, Patrick , Warren e Kerry appunto, sul palco, nelle ore di punta quando i discorsi vanno in diretta nazionale su tutte le TV, piu’ un altro manipolo (sindaco compreso) spalmati nei periodi di minor ascolto.
Ma di questi tempi nemmeno il Massachusetts può darsi troppo per scontato e a ricordarlo, almeno agli analisti piu’ attenti, e’ proprio la Warren, non tanto a parole, quanto con la sua presenza sul palco. Di fatto il seggio senatoriale che cerchera’ di conquistare a novembre (quando, ricordiamo, oltre che alla poltrona di presidente c’è in palio anche quella di 33 senatori su 100) e’ attualmente occupato da Scott Brown, eletto a sorpresa dopo la morte di Ted Kennedy, alla fine di un elezione che i Democratici di Boston e dintorni (sia i politici che gli elettori) consideravano vinta “di default”. Dopo essersi “scannati” alle primarie i democratici locali e la loro candidata Martha Coakley presero la campagna elettorale contro l’avvocato, ex fotomodello, di provincia ‘sottogamba’; in molti, a sinistra, non andarono nemmeno a votare e il Massachusetts per la prima volta nella sua storia mando’ al Senato un Repubblicano. E il danno non fu solo simbolico: Brown divento’ il 41esimo senatore non Democratico, togliendo ad Obama quel 60 percento di maggioranza necessario ad evitare l’ostruzionismo parlamentare, e dunque costringendolo a passare una riforma sanitaria fortemente “edulcorata”.
Dal Massachusetts, dunque per i democratici possono arrivare anche le brutte sorprese. Ma in quell’occasione lo staterello del nordest dimostro’ all’America e al mondo anche una grande e incoraggiante verita’: nelle democrazie che funzionano, le roccaforti non sono feudi.
Stefano Salimbeni