Badanti con diploma

Un corso sperimentale delle Acli a Udine, Roma e Napoli, per aumentare professionalità e integrazione. Ne parla il presidente Andrea Olivero.

06/08/2010

Ben settecentomila famiglie contano su una badante straniera (o “assistente familiare”, come preferiscono dire le interessate) per seguire i loro anziani. «Avere in casa un buon assistente familiare viene considerato una grande fortuna», sottolinea Andrea Olivero, presidente delle Acli (Associazioni cristiane dei lavoratori italiani). Fortuna è poter contare su capacità e umanità, è riuscire a instaurare rapporti buoni. Ma non sempre tutto corre liscio tra datori di lavoro e badanti, così come incomprensioni culturali da una parte e dall’altra limitano la possibilità, per queste lavoratrici straniere e indispensabili, di sentirsi accettate nella società in cui vivono.

Proprio le Acli, per un intero anno, si sono allora impegnate in un progetto sperimentale di formazione e di inclusione che ha coinvolto una sessantina di badanti straniere e le famiglie che le occupano, nelle città di Udine, Roma e Napoli. Personale dell'associazione e volontari hanno condotto corsi, seminari e incontri; in tutto il Paese, poi, le Acli hanno lanciato una campagna d'informazione per ricordare agli italiani che il lavoro delle "Colf: non è un gioco", ma un mestiere che merita considerazione sociale e rispetto dei diritti.
 
«Il primo passo è stato mettere queste persone straniere nelle condizioni di andare incontro all’altro», precisa Olivero, «con i corsi di italiano e la conoscenza del nostro Paese, sul piano culturale e storico, ma anche nel tempo libero: quindi visite delle città dove lavorano, ritrovi tra donne che svolgono gli stessi compiti, corsi di computer per comunicare via Internet e Skype con i parenti lontani. Molto spesso le famiglie erano disponibili a mettere a disposizione il loro stesso computer, e qui scattavano relazioni di dialogo e amicizia, perché poi si vedevano i figli della donna e l’incontro con i volti e le esperienze faceva nascere il riconoscimento dell’altro».

Il presidente delle Acli allarga lo sguardo dai rapporti di lavoro alla società multietnica che ormai siamo, sottolineando: "Per creare inclusione sociale non si deve lavorare soltanto sul soggetto da includere, ma anche su quanti gli stanno intorno: in questo caso specifico le famiglie, oltre che le lavoratrici straniere. Perchè l'inclusione nasce da un incontro vero e reale. Noi lo abbiamo sperimentato mettendo in campo le nostre tradizionali capacità di creare socializzazione".

Quanto al miglioramento della preparazione professionale «abbiamo fornito percorsi sia con elementi basilari come la cucina e la tenuta della casa, sia insegnamenti più specifici sulle esigenze sanitarie, rendendole in grado di fornire un’assistenza più professionalizzata rispetto alle necessità dell’utente. Abbiamo coinvolto le famiglie datrici di lavoro, facendo comprendere che loro stessi dovevano chiedere alla donna di attivarsi, di essere protagonista nell’assumere maggiori responsabilità. E qui abbiamo notato un fattore molto importante, cioè che la responsabilità aumenta la consapevolezza, perché quando la straniera lavoratrice si rende conto che la famiglia conta e scommette su di lei, percepisce il proprio lavoro con molta più dignità, lo valuta un lavoro positivo. In genere, invece, viene considerato positivo dalle donne che lo praticano soprattutto per il reddito che procura».
 
Un altro elemento importante del progetto delle Acli è stato fornire le proprie sedi per colloqui di chiarimento tra datori di lavoro e badanti. «Offrire un luogo “terzo” quando ci sono incomprensioni culturali che talvolta diventano anche rancore, aiuta molto», osserva il presidente delle Acli. «Spesso questi problemi si rivelano non fondamentali, e comunque risolvibili parlando apertamente. Penso che organizzazioni come le nostre possano mettere a disposizione questi spazi d’incontro.  Lasciare sole le famiglie e le lavoratrici, soprattutto quando la famiglia si riduce alla persona anziana, rischia di creare un clima negativo da entrambe le parti, perché l’accoglienza è sempre una cosa faticosa"

Da quest'esperienza si possono trarre insegnamenti utili per tutte le famiglie in situazioni simili? "Prima di tutto, ribadire che bisogna venirsi incontro gli uni gli altri. Sono lavoratrici che vanno intese come tali, perché la persona che vive in casa non diventa una di famiglia. Non bisogna semplificare troppo le relazioni, che sono innanzi tutto relazioni di lavoro. Però bisogna essere capaci di venirsi incontro, avere il coraggio di dire le cose ma anche l'attenzione e il rispetto per lavoratrici che hanno le loro esperienze, e però anche le loro fragilità".

È quasi certo che il progetto delle Acli continuerà e si allargherà, ma i risultati ottenuti potrebbero fornire un esempio alle amministrazioni locali e alla società civile per iniziative analoghe, che avrebbero tra gli altri il vantaggio di promuovere un’integrazione vera. "Io credo molto alla società civile", precisa Andrea Olivero, "che qui ha un grande spazio per svolgere un compito che è alla sua portata: far incontrare le persone, rendere espliciti i problemi ed eventualmente, laddove si può, aiutare a uscirne con formazione e con incontri".

«Abbiamo notato che le donne straniere erano quasi stupite nel sentire che qualcuno si occupava di loro, e alla fine si sono rese conto di avere acquisito una nuova professionalità », conclude Olivero. «Avevamo il timore di giocare soltanto su un'accoglienza fatta di calore e affettuosità, e invece alla fine è emerso anche il tema della professionalità. Per esempio in donne dall'istruzione elevata, che avevano iniziato questo lavoro con frustrazione e hanno terminato il progetto coscienti di possedere strumenti professionali in più. Qui non si sta parlando soltanto di dignità delle persone, ma anche dell’esplicita dignità di lavoratori. Questo è un ambito nel quale probabilmente l’integrazione si può fare prima e meglio che in altri, e quindi sarebbe utile impegnarsi con determinazione».

Rosanna Biffi
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